Il 73enne padre del giovane ucciso dall’attentato del 9 aprile, ha fatto ritorno nella propria abitazione grazie all’aiuto di Libera che ha inviato un’ambulanza a Palermo. Don Stamile tra i primi a fargli visita: il perdono dopo la polemica con De Pace - VIDEO
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Appare emozionato e confuso, Francesco Antonio Vinci, padre di Matteo, il 42enne ucciso dall’esplosione dell’autobomba che il 9 aprile scorso è esplosa a bordo della Ford Fiesta sulla quale entrambi viaggiavano di ritorno a casa dai loro terreni nelle campagne di Limbadi. Da quel giorno, il 73enne si trovava ricoverato all’ospedale di Palermo dove era stato trasportato d’urgenza con serie ustioni in varie parti del corpo. L’uomo ha fatto ritorno a casa intorno all’1.30 di questa notte e, provato dalla lunga permanenza in ospedale e dalle sue precarie condizioni di salute, ha impiegato qualche ora a prendere coscienza di quanto sia realmente accaduto circa 80 giorni orsono. Fino ad oggi non era stato ancora esplicitamente informato della sorte toccata al figlio Matteo ma, una volta a casa, non ci ha messo poi molto a comprendere l’atroce verità. Ha chiesto più volte di lui nel corso della notte alla moglie, Rosaria Scarpulla, arrivando infine a capire da sé cose sono realmente andate le cose.
Francesco Vinci ha fatto ritorno a Limbadi grazie all’iniziativa intrapresa da don Ennio Stamile, referente regionale di Libera che, nella giornata di ieri, raccogliendo l’accorato appello della moglie, ha inviato un’ambulanza da Vibo al capoluogo siciliano per riportarlo a casa. Clamore avevano destato le proteste intraprese dalla stessa Scarpulla e dal suo avvocato Giuseppe Antonio De Pace, che avevano richiesto con forza che fosse la Prefettura di Vibo Valentia a farsi carico di accompagnare la donna a Palermo assegnandole un servizio di tutela più stringente rispetto a quello attuale che consiste in una “vigilanza dedicata”, dai due ritenuta insufficiente fin dalle ore immediatamente successive all’efferato omicidio. Né, dopo un primo momento di sollievo, erano bastati a tranquillizzare gli animi i sei fermi operati dai carabinieri su mandato della Dda di Catanzaro a carico dei componenti della famiglia Di Grillo-Mancuso, da sempre indicati come pianificatori ed esecutori del delitto da parte di Rosaria Scarpulla. Un crimine, ha ricostruito la Dda anche grazie alla sua testimonianza, dovuto alla bieca volontà degli indagati di impossessarsi dei terreni delle vittime e di affermare così la propria prevaricazione mafiosa.
Tra i gesti più eclatanti della lunga protesta messa in atto dalla madre di Matteo Vinci e del suo legale, lo sfogo che ieri in Prefettura ha portato i due ad accanirsi con calci e pugni sulla porta d’ingresso degli uffici territoriali del Governo di Vibo ma anche, si ricorderà, il teatrale gesto di De Pace che aveva stracciato le tessere di Libera nel corso di una conferenza stampa. Gesto dal quale erano scaturite forti polemiche proprio con don Stamile. Lo stesso sacerdote che ora, con un gesto di carità cristiana improntato al perdono, ha invece raccolto quel grido di dolore facendosi carico del trasferimento di Francesco Vinci fino a casa. Non solo. L’esponente dell’associazione antimafia è stato tra i primi a recarsi questa mattina nell’abitazione di via delle Fosse ardeatine per salutare l’uomo scampato all’attentato dell’aprile scorso.
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Così come ha fatto il maresciallo Ezio Giarrizzo, comandante della Stazione dei carabinieri di Limbadi, che fin dalle 8 di stamane ha avuto un colloquio informale con Vinci. L'uomo ha ricostruito gli attimi immediatamente successivi all’esplosione riferendo di ricordare come nel luogo dell’attentato stava arrivando proprio in quei minuti una sua cognata, la stessa che ha prestato i primi soccorsi, assistendo a tutta la scena. «Ha visto Matteo morire tra le fiamme» ha detto Francesco con le lacrime agli occhi, con davanti la foto del figlio, ripetendo in maniera quasi compulsiva: «Lasciatelo lì, lo voglio vedere». Vinci ha poi fatto anche nomi e cognomi, riferendo di aver chiaramente visto uno o più degli attuali arrestati sulla sommità di una collina, nei giorni precedenti e non distante dal luogo dell’esplosione.
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