Richiedenti asilo si sono messi a disposizione a Tel Aviv e dintorni per aiutare con la raccolta di beni di prima necessità, le operazioni di imballaggio, i lavori nei campi e la rimozione dei corpi dalle strade
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In un momento in cui le belle notizie passano in secondo piano e diventano materia rara, appena si legge qualcosa di bello si cerca di approfondire, ed è così che si intravedono quegli spiragli di luce che fanno sperare ancora nell’uomo che ricorda e non dimentica. Si perché l’uomo è attraverso il ricordo che può tenere viva la memoria, evitando gli errori atroci di un tempo. Ma l’uomo questa memoria non la possiede, dimentica troppo facilmente e con altrettanta facilità dimentica le atrocità della guerra e cosa ancor più brutale, ci si abitua.
Poi ci sono coloro che la guerra la fuggono e che le atrocità subite non le dimenticano, ma le portano addosso come cicatrici da mostrare con dignità, offrendo il loro ringraziamento a chi li sta accogliendo. Ed è qui che nasce la storia di centinaia di richiedenti asilo che si sono offerti come volontari dallo scoppio della guerra e che ai giornali locali dicono: «Capiamo cosa sono la paura e il trauma».
Tra di loro numerosi eritrei, sudanesi, che fin dal primo giorno si sono messi a disposizione della comunità israeliana per aiutare con la raccolta di beni di prima necessità, con l’imballaggio degli stessi, dando una mano nei campi per l’agricoltura e persino dando una mano con la rimozione dei corpi dalle strade. Giovani come Berhana Negasi, che ha studiato all’università ebraica, che è uno degli esponenti più importanti della comunità eritrea e che ha deciso di organizzare il sistema di volontariato attualmente in atto a Tel Aviv e dintorni.
Da quanto si apprende dai media Berhana, esattamente due anni fa ha fondato l'associazione Tikva Hadasha per i richiedenti asilo in Israele. «Ogni giorno abbiamo un compito diverso da svolgere» dice. Ragazzi che si sono presentati come volontari all'Expo di Tel Aviv dalla prima settimana di guerra. A rimanerne stupito lo stesso leader dell’Associazione Brothers to Kiss Tomer Appelbaum che intervistato da Hareetz ha dichiarato: «Non so nemmeno come abbiano saputo dove presentarsi, ma erano lì in quel momento». Lo stesso Berhana ricorda gli stessi terribili momenti vissuti in Africa prima di giungere in Israele: «Sappiamo anche cosa vuol dire essere rapiti. Ero prigioniero dell'Isis nei campi del Sinai e come tutti, faremo quello che possiamo».
Così anche loro, unitisi agli oltre 10mila volontari hanno iniziato a trasportare merci, cucinare, cucire fino a prestare la propria mano d’opera nei campi, dove sembra ci sia un bisogno urgente causato dalla partenza immediata di migliaia di lavoratori tailandesi che hanno lasciato Israele dopo i rapimenti, le uccisioni e l’inizio del conflitto. Accudire e ospitare è diventato un altro compito. Centinaia di richiedenti asilo che si considerano, come dovrebbe accadere ovunque, parte della società israeliana stanno attivamente aiutando il Paese. Tra di loro ce ne sono alcuni che vi abitano da almeno 15 anni.
Anche giovedì scorso decine di richiedenti asilo si sono organizzati e si sono fermati nel campo dei cherubini, dei contadini di Kfar HaNoar Kenato vicino a Gedera, dove hanno lavorato nella mietitura fino al tramonto. Ma le loro storie ve le racconteremo a breve dalla loro stessa voce.