A rivolgere l'appello al ministro dell'Interno, Matteo Salvini, è la cognata di Marcello Bruzzese, ucciso il giorno di Natale: «Siamo ancora a Pesaro, è assurdo. Vogliamo delle garanzie e lasciarci alle spalle questa situazione»
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«Al ministro Salvini chiedo col cuore di aiutarci. È giusto che chi collabora e i loro familiari vengano tutelati. Noi abbiamo figli che hanno subito di tutto, sono stati lesi i loro diritti sin dalla tenera età. Noi non viviamo più da questa tragedia. Dal giorno di Natale». A rivolgere l'appello al ministro dell'Interno, Matteo Salvini, è la signora Femia, moglie del collaboratore di giustizia, Girolamo Biagio Bruzzese.
Bruzzese era esponente di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quando nel 2003 ha deciso di collaborare con la giustizia e lasciare la Calabria. Lo scorso anno a Natale, nel centro di Pesaro, venne ucciso suo fratello Marcello che, già nel 1995, era sopravvissuto ad un attentato.
La signora Femia, moglie di Girolamo Biagio e cognata di Marcello, dice all'Agi: «Lo voglio rivelare, siamo ancora a Pesaro. È assurdo, proprio lì dove hanno ucciso mio cognato. Nonostante la solidarietà dei momenti successivi. Noi vogliamo delle garanzie, vogliamo lasciarci alle spalle questa situazione. Vogliamo essere aiutati dallo Stato che abbiamo deciso di aiutare con le dichiarazioni di mio marito.
Avevamo il nome sul campanello, è assurdo ma è così. Il motivo - spiega la signora Femia - è che pochi anni fa persi la patente di copertura, così chiesi di avere una copia ma mi dissero che non si poteva fare perché sarebbe stato un documento falsificato, nonostante ci siano delle leggi speciali per questi casi. Così, da allora, tutti noi siamo stati costretti a riacquistare la nostra identità, cioè ci è stato imposto, purtroppo. Ci hanno detto che 'la cosa più giusta era riprendere il nostro cognome'. Il problema è che la 'ndrangheta non dimentica, e la loro - quella di chi è addetto alla nostra protezione – è stata un'imposizione bella e buona».
La signora Femia era giàstata colpita, nel 2004, da una grave tragedia: «Fu ucciso mio padre, anche allora, come nel caso di mio cognato, per colpire mio marito, per fare soffrire lui e tutti noi. Mio padre non c'entrava affatto - spiega - aveva un passato cristallino ma non ha avuto lo status di vittima di mafia. Voglio dirlo anche per mia madre, abbiamo fatto la richiesta per lo status di vittima di mafia, la prefettura diede l'ok ma il ministero si oppose. Abbiamo fatto causa, vinto il primo grado di giudizio, ma perso l'appello, perche' il ministero ha presentato della documentazione fuori termine. Sono state fatte delle cose che secondo me fanno comprendere come la legge non abbia ragione di esistere. Non possono - conclude - esserci due pesi e due misure. Vogliamo tornare a vivere dopo queste due immani tragedie, aiutateci», conclude la signora Femia.
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