Il potente monologo scritto e interpretato da Giuseppe Arnone ha emozionato il pubblico reggino, riportando sul palco una pagina dolorosa della storia italiana
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Foto di Pietro Morello
Il Teatro Primo di Villa San Giovanni continua a offrire al pubblico spettacoli che lasciano il segno. All'interno della sua stagione teatrale, è andato in scena "Mia madre non voleva cantare", testo e interpretazione straordinaria di Giuseppe Arnone, con la regia di Claudio Zarlocchi. Una produzione Multietra, che ha conquistato il pubblico nelle repliche del 15 e 16 marzo.
Uno spettacolo intenso, che riporta alla luce una storia che ancora oggi pesa sulla coscienza collettiva: quella di Giuseppe Di Matteo, il bambino sequestrato e brutalmente ucciso dalla mafia dopo 779 giorni di prigionia. Un dolore che la drammaturgia di Arnone ha deciso di raccontare da un’angolazione inaspettata, che partendo dall’ironia e dalla spensieratezza tipica della gioventù è stata capace di crescere e scuotere lo spettatore con una riflessione profonda sulle conseguenze del male.
Un punto di vista sconvolgente: la consapevolezza di un figlio
Il protagonista dello spettacolo è Giuseppe Chiodo, un ragazzo di 13 anni che vive nella provincia di Palermo negli anni '90. In scena una lavagna, su cui Peppino tiene il conto dei punti del gioco che ha creato assieme ai suoi amici, e dall’altra parte la tomba del nonno cui racconta la propria vita da ragazzo e a cui chiede aiuto.
Un’adolescenza che scorre tra amicizie, primi amori e le confidenze fatte al nonno, figura centrale della sua crescita. Ma Giuseppe porta un nome che pesa più di quanto possa immaginare. Suo padre, Vincenzo Chiodo, è uno dei carcerieri di Giuseppe Di Matteo, nonché esecutore materiale della sua uccisione.
Lui non sa nulla. Non sospetta neanche lontanamente di essere figlio di un mafioso. Il gioco, la competizione con gli amici, l’incoscienza della sua età lo portano a inseguire un’illusione di normalità. Fino al giorno in cui la verità lo travolge.
«Una storia che mi è stata affidata»
L’attore ed autore Giuseppe Arnone affronta questo racconto con la consapevolezza di chi maneggia una materia incandescente. Il suo “teatro civile” è una voce che scava nel dolore per restituire memoria e riflessione.
«"Mia madre non voleva cantare" è un testo che nasce nel 2023, ma in realtà nasce da una persona che, per certi versi, mi aveva quasi dato questo incarico: parlare di Giuseppe Di Matteo – racconta ai nostri microfoni -. Non era una cosa semplice, perché la storia di Giuseppe è tristemente nota e volevo parlarne, come faccio solitamente nei miei spettacoli, in una maniera originale, guardandola da un punto di vista diverso. Il punto di vista è quello del figlio di uno dei carcerieri: Vincenzo Chiodo, uno dei tre uomini che hanno sciolto nell'acido il piccolo Di Matteo nel 1996. Suo figlio, Giuseppe Chiodo, era coetaneo di Giuseppe Di Matteo e viveva anche lui nel Palermitano. Ho immaginato come potesse aver vissuto quegli anni, segnati dalla tragedia di due famiglie: quella di Di Matteo e la sua».
Arnone racconta la vita di un adolescente ignaro, che solo con il tempo arriva a una terribile consapevolezza. «Un bambino di 13-14 anni vive la sua adolescenza tra esperienze comuni: i primi amori, le prime confessioni fatte al nonno che non c'è più da due anni, una figura per lui fondamentale. Per certi versi, il nonno viene sostituito dallo “Zì Baldo”, che diventa quasi una guida per Giuseppe Chiodo negli anni successivi. Ci sono le sue prime "minate", le sue prime scoperte della vita, fino a quell’evento che cambierà per sempre la sua esistenza. Mi piace immaginare che Giuseppe Chiodo, inizialmente ignaro di far parte di una famiglia mafiosa, acquisti consapevolezza proprio dopo l’arresto del padre, nel febbraio del 1996, quando Vincenzo Chiodo confessa il suo ruolo in quell’evento tragico».
Un racconto che attraversa gli anni di prigionia di Giuseppe Di Matteo, dal 1994 al 1996, in una corsa contro il tempo scandita dalla scoperta della verità.
Il teatro civile che scuote le coscienze
"Mia madre non voleva cantare" è una testimonianza, un atto di memoria. Teatro Primo ha aperto le sue porte a un racconto che va oltre la scena, riportando alla luce la sofferenza di una vittima innocente e le cicatrici che la mafia lascia non solo nelle sue vittime dirette, ma anche nelle loro famiglie.
L’impatto sul pubblico è stato potente. Lo spettacolo ha emozionato, turbato, lasciato spazio a un silenzio carico di significato, ribadendo il valore di un teatro che non intrattiene soltanto, ma pone domande scomode, riapre ferite e obbliga a guardare la realtà senza filtri.
«Lo spettacolo inizia nel 1994 e termina nel 1996, proprio a testimoniare i 779 giorni in cui Giuseppe Di Matteo è stato tenuto prigioniero. In questi due anni, Giuseppe Chiodo non sospetta minimamente di appartenere a una famiglia mafiosa. La sua tragedia personale è proprio questa: quando capisce la verità su suo padre, avviene quel "click" che cambia per sempre la sua vita».
Un teatro che colpisce, che lascia il segno. Un racconto che non si limita alla cronaca, ma diventa coscienza collettiva.