Da Berlinguer a Parthenope, passando per Vermiglio e L’arte della gioia, la cinquina principale premia il cinema d’autore, ma lascia fuori titoli amati dal pubblico. Il premio certifica una stagione in tono minore. E la distanza tra sala e spettatori resta più che mai evidente
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Il cinema italiano è ancora vivo. Ma vive in apnea. A testimoniarlo non sono tanto le polemiche sul tax credit o le faide ministeriali, quanto le candidature ai David di Donatello 2024: precise, ordinate, perfino ragionevoli. Ma anche prive di coraggio, prive di quel guizzo che dovrebbe accompagnare il premio cinematografico più importante del Paese.
La cinquina che si contenderà il titolo di miglior film e miglior regia è già una dichiarazione d’intenti: Berlinguer. La grande ambizione di Andrea Segre, Il tempo che ci vuole di Francesca Comencini, L’arte della gioia di Valeria Golino, Parthenope di Paolo Sorrentino e Vermiglio di Maura Delpero. Tutti film solidi, ben costruiti, in certi casi perfino belli. Ma nessuno che abbia scosso davvero pubblico e critica. Nessuno che abbia cambiato il passo della stagione.
C’è il biopic politico, c’è il dramma personale, c’è l’adattamento letterario imponente, c’è il racconto intimista, c’è il film premiato a Venezia. Una rappresentanza perfetta, quasi da manuale. Ma dove sono le sorprese? Dove sono i film che hanno acceso il dibattito o infiammato le sale? Dove sono, in fondo, i rischi?
Non c’è Challengers di Guadagnino, nonostante la regia italiana. Non c’è Grand Tour di Miguel Gomes, malgrado sia riconosciuto come “film italiano”. Non c’è Il treno dei bambini di Cristina Comencini, ignorato nonostante il nome di Piovani in colonna sonora. Non ci sono Diamanti di Ozpetek né Il ragazzo dai pantaloni rosa, troppo “commerciali”, si sussurra. Ma intanto riempivano le sale, mentre altri film facevano sold out solo nei cineforum.
Tra gli attori protagonisti, ritroviamo i volti più noti e amati dal circuito d’autore: Elio Germano nei panni di Berlinguer, Tommaso Ragno con il suo veneto cupo in Vermiglio, Fabrizio Gifuni in versione padre Comencini, Silvio Orlando in cattedra per Parthenope, Francesco Gheghi in un sorprendente ruolo drammatico per Familia. Una cinquina equilibrata, come lo è anche quella femminile: Celeste Dalla Porta, Tecla Insolia, Ramona Maggiora Vergano, Martina Scrinzi e Barbara Ronchi. L’unica che, a ogni premio, sembra poter fare la differenza.
A colpire, però, non è solo l’assenza di titoli popolari. È la sensazione generale di una selezione che si muove con cautela. I David sembrano voler accontentare tutti: un po’ di cinema militante, un po’ di televisivo di qualità, un po’ di classicismo sorrentiniano, un po’ di novità festivaliera. E così, nel tentativo di fotografare tutto, si finisce per non illuminare nulla.
Certo, ci sono anche scelte felici: la candidatura di Gloria! di Margherita Vicario tra gli esordi è meritata, come lo sono quelle di Edgardo Pistone, Gianluca Santoni, Loris Lai e Neri Marcoré. La sfida tra direttori della fotografia — Krichman per Vermiglio, Ciprì per Hey, Joe, D’Antonio per Parthenope — è forse la più affascinante della stagione. E nella sezione musiche spuntano nomi che alzano il livello: Thom Yorke, Iosonouncane, Colapesce. Piccoli lampi in un cielo grigio.
Eppure, si respira una certa stanchezza. Il cinema italiano — quello premiato, almeno — sembra ripiegato su se stesso. Non si sporca, non si lancia, non esplora davvero. Va in cerca di eleganza, di riconoscibilità. Ma dimentica la vertigine. E forse anche il pubblico.
I David 2024 ci ricordano che il talento non manca. Manca però la scintilla. Quella che fa di un film un evento, e non solo una buona prova d’autore. Quella che mette d’accordo la critica e chi compra il biglietto. Quella che fa davvero battere il cuore.