Negli anni i commissari inviati dalle Prefetture nelle stanze dei bottoni delle Aziende sanitarie provinciali hanno rilevato consolidate pratiche predatorie messe in opera dalle cosche. Ecco in sintesi come, quando e dove (ASCOLTA L'AUDIO)
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Infiltrazioni della ‘ndrangheta, interessi massonici, abusi amministrativi e contabili: se la provincia di Reggio Calabria guida storicamente la classifica del disastro sanitario calabrese targato mafia, il resto della regione non se la passa meglio.
Negli anni, i commissari inviati delle Prefettura all’interno delle stanze dei bottoni delle aziende sanitarie sparse sul territorio, hanno rilevato consolidate pratiche predatorie messe in opera dai clan con la collaborazione di una parte dello stesso sistema sanitario regionale in quasi tutte le loro relazioni finali. Relazioni che hanno portato al commissariamento dell’Azienda di Vibo Valentia, nel dicembre del 2010, e di quella di Catanzaro, nel settembre del 2019. Unica finora a uscire indenne dalle ispezioni antimafia, solo l’azienda di Cosenza, il cui accesso prefettizio si concluse con un’archiviazione nell’ottobre del 2013.
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Meccanismo perverso
«È un bacino elettorale, è una forma di finanziamento alle cosche». Era stato il Procuratore capo di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri, davanti alla Commissione parlamentare sulla mafia, a raccontare la gravità della situazione: «La sanità non è solamente il ricovero ospedaliero, la sanità è anche l’appalto per ottenere le opere per il funzionamento dell’ospedale e delle strutture sanitarie e per l’accreditamento delle strutture private. È tutto un insieme di cose ed esistono anche in altre realtà… in Calabria – ha detto ancora Bombardieri nell’audizione del marzo 2019 – purtroppo abbiamo questo meccanismo perverso, in cui la ‘ndrangheta ha terreno facile nel gioco delle clientele e nel gioco dei flussi finanziari ed economici, che sono alla base della sanità regionale». E così, sull’onda di clientele sempre più sfacciate verso gli amici degli amici, calcolati caos amministrativi, bilanci mai presentati o palesemente contraffatti, medici e paramedici imboscati e accreditamenti verso il settore privato sempre più frequenti, il livello della sanità regionale è rimasto sempre più indietro, anni luce lontano rispetto agli standard erogati nel resto del Paese.
Il caso Vibo
Nel 2010, in seguito alle numerose indagini portate avanti dalla distrettuale antimafia di Catanzaro che aveva scoperchiato le storture del “sistema” in vigore, anche l’Asp di Vibo Valentia finì sotto la lente d’ingrandimento della commissione d’accesso. La relazione che ne seguì, disponendo il commissariamento dell’ente, fissava una fotografia nerissima che sottolineava come cosche pesanti sul territorio come quelle dei Lo Bianco, dei La Rosa e dei Fiarè, avessero affondato i propri interessi nel ventre molle di un’azienda sanitaria in agonia. «I soggetti malavitosi – si legge – beneficiavano della condotta omissiva di alcuni dirigenti pro-tempore della stessa azienda, rivestendo ruoli apicali, che hanno permesso di gestire in regime di monopolio la quasi totalità dell’assegnazione degli appalti riguardanti la fornitura di beni e servizi, veicolando tali appalti a ditte riconducibili alle cosche». Un “giochino” estremamente redditizio che, in soldoni, si traduceva con «ribassi elevati che raggiungono quasi il 50%, la lottizzazione di opere unitarie, la presenza ripetitiva delle medesime ditte a gare diverse con avvicendamento delle stesse nelle aggiudicazioni, la riferibilità di aziende a cosche mafiose locali».
Le infiltrazioni a Catanzaro
E gli appalti erano la principale fonte di guadagno diretto delle cosche anche nell’Asp di Catanzaro, ultima in ordine di tempo – a settembre del 2019, sei mesi dopo il secondo scioglimento di Reggio – a subire l’onta del commissariamento per infiltrazioni mafiose. Procedure pilotate, gare prorogate “tacitamente”, personale con curriculum criminali di primo piano e regolarmente a stipendio: le conclusioni tratte dalla commissione d’accesso puntavano il dito su un sistema che, scriveva l’allora Ministro dell’interno La Morgese, segnava «la compromissione delle legittime aspettative della popolazione ad essere garantita nella fruizione di diritti fondamentali». Era stato l’ospedale di Lamezia, in quell’occasione, a segnare le maggiori criticità evidenziate dai commissari che sottolinearono come, nel pronto soccorso «due gruppi imprenditoriali abbiano acquistato di fatto il totale controllo della struttura anche per lo stato di soggezione del personale medico e paramedico». E poi gli affidamenti diretti «a favore di un ristretto numero di ditte che in taluni casi, attraverso il “frazionamento artificioso della spesa”, hanno comportato una sostanziale elusione delle normative antimafia» e il personale, tra cui si registrano «numerosi dipendenti con precedenti o pendenze penali concernenti reati associativi o contro la pubblica amministrazione».
I bilanci di Cosenza
Si risolsero invece con un’archiviazione, nell’ottobre del 2013, le indagini della commissione d’accesso sull’Asp di Cosenza. Archiviazione che non cancella le tante criticità – con annessi risvolti penali – della più grande azienda sanitaria regionale. Criticità evidenziate dallo stesso ex commissario ad acta del Governo, Guido Longo, davanti alla Commissione antimafia nel maggio del 2021: «L’Asp di Cosenza – relazionò Longo – è stata falcidiata dalla recentissima inchiesta della Procura che ha estromesso es dirigenti, ex direttori generali e anche personale amministrativo. L’indagine ha riguardato, al momento, soltanto una falsità di bilancio e una gestione falsata da risultanze iscritte in bilancio. Abbiamo quindi tre bilanci, riguardanti il 2015, il 2016 e il 2017, dichiarati falsi».