L’incontro al funerale di papa Francesco è storico nel senso peggiore: la politica è spettacolo, la democrazia marketing, la morte solo un’occasione
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Viviamo un tempo in cui non esiste più la tragedia, ma solo il suo travestimento indecente. Viviamo in una società che ha trasformato anche il dolore in uno spettacolo, la morte in una conferenza stampa, il lutto in una passerella. Ed eccoli lì: Trump e Zelensky, due figure che sembrano uscite da un teatro di marionette, si incontrano sotto le volte sacre di San Pietro, non per pregare, non per piangere la scomparsa del Papa, ma per consegnarsi — complici — alle macchine fotografiche, ai cellulari, ai riflettori.
Che cos'è questo incontro, se non un atto osceno contro lo spirito?
Un colloquio improvvisato, forzato, svuotato di ogni autentico significato politico — ché lo sappiamo bene, noi che ancora resistiamo al consumo coatto delle immagini — senza sherpa, senza trattative preparate, senza alcuna sostanza. Solo il nulla, che pretende di farsi evento.
La foto che circola, invadendo i media come una metastasi, è l'istantanea di una nuova religione: la religione della volgarità. Un culto in cui non esistono più la decenza, il rispetto, il silenzio. Dove tutto è immediatamente cannibalizzato dal bisogno di apparire, di segnare un "momento storico" fittizio. Perché non è più l'azione a essere storica, ma solo la sua rappresentazione. San Pietro, i funerali di un Papa, dovrebbero essere il tempo del raccoglimento, della coscienza. Ma questo mondo non conosce più né l'uno né l'altra.
Trump e Zelensky si siedono tra le navate come attori di un dramma senza copione, protagonisti di una farsa dove il sangue, la pace, la guerra, la morte stessa, sono ridotti a post sui social network, a didascalie su Instagram. Qualcuno ha già definito quell'incontro "storico". Storico, sì — ma solo nel senso più atroce: storico come segno della definitiva degenerazione della politica in spettacolo, della diplomazia in marketing, della morte in occasione.
Se pure l'incontro producesse una pace — e non la produrrà, lo sappiamo bene — essa sarebbe nata dalla più inaccettabile profanazione: quella che usa i morti come sfondo, i morti come cornice per l'autopromozione dei vivi.
Non uomini, in quella foto. Non politici. Non c’è dolore, né compassione. Solo due marionette manipolate da fili invisibili: l'ansia di potere, il narcisismo insaziabile, la fame di celebrità.
Ed è parte della stessa galleria degli orrori — dello stesso sacrilego teatro — quella processione infinita di smartphone e selfie davanti alla bara aperta del Papa. Volti sorridenti accanto al corpo immobile. Flash, sorrisi, pose.
La morte non più come mistero o compianto, ma come ennesima occasione di visibilità personale, di consumo osceno del sacro. È questo il vero lutto, oggi. Non la scomparsa del Pontefice, ma quella della decenza. Non la morte di un uomo, ma la morte dell'umanità stessa.
E mentre i flash illuminano le navate, il buio cresce nei cuori. Come nella parabola evangelica dei mercanti nel tempio, qualcuno dovrebbe rovesciare i tavoli, scacciare i venditori di morte. Ma forse ormai anche il tempio è stato venduto, anche Dio è stato messo all'asta.
Del resto, lo diceva anche Gep Gambardella ne La Grande Bellezza: "Molti pensano che un funerale sia un evento casuale privo di regole. Non è così. Il funerale è l'appuntamento mondano per eccellenza. A un funerale, non bisogna dimenticarlo, si va in scena. E oggi ancora una volta, la scena ha divorato la vita.