Si riaccendono le luci della Capitale con una puntata ad alta tensione: domande impertinenti, sarcasmo e frecciate, mentre quello di Antonella Grippo si conferma il talk più irriverente del panorama tv
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Se Perfidia fosse un cocktail, stasera sarebbe un Manhattan: secco, deciso e servito sul momento, da bere tutto di un sorso senza tentennamento alcuno. Perché lo show di Antonella Grippo alza il tiro e si prende tutto, o quasi. Perché quando il parterre ospita big che scottano, la trasmissione della rete guidata da Domenico Maduli si muove come un bisturi ben affilato: taglia alla ricerca della verità. Per rivedere la puntata, clicca qui.
Lo studio romano di via Condotti 21, fiore all’occhiello del gruppo editoriale Diemmecom, si trasforma quindi per una sera nel tempio della perfidia e dell’ironia, sempre con quella spruzzata di veleno che fa la differenza. Dopo la puntata romana del mese scorso con un cast da album delle figurine Panini — da Calenda a Gasparri, passando per Bobo Craxi e Pascale — la Grippo apparecchia l’ennesimo cenone, e stavolta il piatto forte è Riccardo Molinari, capogruppo della Lega alla Camera, l’uomo che ha osato cantare fuori dal coro meloniano riportando il carroccio al celodurismo delle origini.
Molinari si presenta davanti alla regina dell’impertinenza con l’aria di chi sa di entrare nel forno e di uscirne comunque con il sorriso. Ma la padrona di casa non perdona. Lui, da navigato leghista, sa come giocare di sponda. Dice e non dice, elogia la premier ma al tempo stesso la punge. «Giorgia Meloni non ha il mandato degli italiani per sostenere il piano di riarmo di Ursula von der Leyen», ribadisce deciso. «La maggioranza degli italiani non vuole la guerra». E mentre Antonella sorride sotto i baffi immaginari, Molinari spiega che no, quello con Giorgia non è una resa dei conti, ma una normale dialettica nella maggioranza. «Con Fratelli d’Italia siamo alleati, ma non significa dire sempre sì».
La stoccata è anche per Forza Italia, accusata sottotraccia di troppa compiacenza. L’intervistatrice vorrebbe infilare la lama ancora più a fondo, ma Molinari si muove cauto come un diplomatico d’altri tempi. «Abbiamo sempre avuto una posizione chiara, critica ma costruttiva». Tradotto: i panni sporchi si lavano in casa, ma se serve li facciamo sventolare un po’ all’aperto.
Poi la Grippo apre il fronte caldo delle elezioni regionali in Veneto. Zaia resta o Zaia se ne va? E Molinari, con il solito aplomb, scuote la testa: «Sarebbe assurdo sacrificare un governatore che ha lavorato così bene per meri calcoli di partito. Siamo fiduciosi che Giorgia Meloni capirà e lascerà al suo posto il nostro Luca». E qui l’invito non è solo per la premier, ma un appello a tutta la coalizione: «Un partito che vale il 30% dei consensi deve ragionare da federatore». L’ombra di Berlusconi aleggia, evocata con cura: «Silvio ci trattava da pari. Anche quando eravamo deboli. Da Giorgia ci aspettiamo lo stesso metro».
E su Salvini? C’è chi lo descrive in bilico come non mai. Ed è lì che Antonella affila le armi, ma Molinari dribbla come un terzino brasiliano. «Matteo sta bene dov’è. E verrà riconfermato senza alcun problema». E giù la stoccata ai detrattori: «Sono anni che lo danno per spacciato, e invece eccoci qui: siamo solidi come non mai e al governo». La Grippo ci prova a farlo cadere nel tranello, ma lui resta incollato al copione da capogruppo navigato: Salvini, Zaia, Meloni, tutto sotto controllo.
Insomma Perfidia si concede una serata da talk show “serio”, senza però rinunciare alle sue radici: punzecchiare, insinuare, ma con garbo. E Molinari, pur sotto il tiro incrociato della padrona di casa, ne esce con la camicia ancora in ordine.
Lasciata la Lega, la conduttrice muove il suo vascello pirata verso un nome che - di politica - ne mastica dai tempi della Democrazia Cristiana. Gianfranco Rotondi è ora approdato ai lidi sereni di Fratelli d'Italia ma non dimentica il suo doroteismo ermeneutico targato DC. Anche a lui toccano le bordate di Antonella Grippo, ma il sorriso sornione da politico d'antan non si spegne mai. Rotondi sa cosa dice e sa come dirlo, da un lato canta le lodi di Giorgia e dell'alleanza di governo, dall'altro si lascia andare con un pizzico di nostalgia al ricordo di una classe politica che, assicura, ora concorderebbe con la prudenza un po' sparagnina della presidente del Consiglio, capace di tenere insieme le molteplici componenti della sua formazione vincente.
«Trovo che Giorgia abbia detto alla Camera delle cose molto equilibrate e condivisibili. Nessuno vuole la guerra. Ma se la guerra te la fanno diventa obbligatorio pensare a come difendersi».
Più netto sulla necessità di un cambio di passo nelle alleanze internazionali e sulla postura dell'Europa: «Noi dobbiamo metterci in condizione di difenderci da soli. Non possiamo pensare che altri debbano proteggerci per forza. Attualmente l’Europa ha avuto uno choc, ha un rigurgito di dignità. Dobbiamo andare verso la difesa europea».
La bandiera dell'opposizione, per altro molto soft, è affidata a Italia Viva e al suo vicepresidente Enrico Borghi. La conduttrice, fedele al suo stile tagliente, lo punzecchia sul tema più spinoso del momento: Matteo Renzi e il ruolo che potrebbe giocare da qui alle prossime elezioni. Mentre tra il Pd di Elly Schlein e il Movimento Cinque Stelle di Giuseppe Conte si continua a litigare su tutto, chi sarà il federatore capace di rimettere insieme i cocci della sinistra? Borghi sorride sotto i baffi e non si sbilancia, ma la risposta è calibrata al millimetro: «Italia Viva ha fatto la scelta precisa di essere il centro che guarda a sinistra. E se c'è da costruire un'alternativa senza veti, possono contare su di noi».
Ma è lo sguardo d’insieme, la fotografia del momento storico, a dare a Borghi il pretesto per un’analisi più profonda, tra geopolitica e crisi di sistema: «Sono venuti a mancare i tre pilastri su cui abbiamo costruito gli ultimi 80 anni di pace: la protezione dell'America non c'è più, l'energia che arrivava a basso prezzo dalla Russia non è più disponibile, avevamo una manifattura a disposizione a prezzi bassi in Cina. Ora dobbiamo costruire su basi diverse».
Un finale che la Grippo coglie al volo per rinfocolare la tensione con una domanda perfida rimasta sospesa nell’aria: chi sarà davvero, da qui al 2027, a ridisegnare il volto della sinistra italiana?
La risposta non arriva certo da Marco Rizzo, leader di Democrazia Sovrana e Popolare che pure dovrebbe essere il più a sinistra di tutti. Anzi, chiude il cerchio e fa sorridere vedere come, dopo un’ora abbondante di duelli a colpi di dialettica, i poli opposti si tocchino, sfiorandosi quasi con complicità. Le posizioni di Rizzo e quelle di Riccardo Molinari, capogruppo della Lega, sulla guerra e sulla situazione internazionale sembrano sorprendentemente vicine, come se, in un universo parallelo, condividessero lo stesso manifesto programmatico.
Rizzo non si smentisce e ribadisce la sua linea netta, quasi granitica, fatta di slogan e di certezza assoluta: «Pace ad ogni costo, la Russia ha già vinto la guerra, gli italiani non vogliono combattere». Una posizione che sembra uscita da un cinegiornale d’altri tempi, con il bianco e nero a incorniciare la scena e il tono da tribuna politica degli anni Cinquanta. Se qualcuno avesse chiuso gli occhi per un attimo, avrebbe potuto immaginare Peppone e Don Camillo pronti a incrociare le braccia l’uno contro l’altro in una piazza di paese.
Perché, alla fine, tra slogan barricadieri e nostalgie ideologiche, il ritorno del “comunismo duro e puro” di Rizzo fa quasi tenerezza. O forse solo una gran voglia di rimpiangere i tempi in cui – che si fosse da una parte o dall’altra della barricata – almeno si sapeva sempre, con chiarezza e senza sfumature, da che parte stare.