A volte penso a Nicola Gratteri come a un soldato barricato in una Fort Alamo da difendere a ogni costo, anche se il prezzo da pagare è altissimo. Nel giro di due giorni abbiamo saputo che lo Stato non lo vuole alla guida della Procura nazionale antimafia e che l’antistato vuole farlo saltare in aria come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. A molti le cose stanno bene così: questo eterno assedio non li tocca, si limitano a fare da spettatori o a guardare altrove.

Ma tanti non vogliono voltarsi dall’altra parte: è per loro che diventa essenziale non arrendersi. Perché il fatto stesso di lottare dà senso e dignità alla vita, al lavoro, a un’idea di presente e di futuro per sé stessi e per i propri cari. Quando si lotta per ciò in cui si crede non ci si domanda se la vittoria è vicina o lontana. Lo si fa e basta. È così per tanti calabresi, credo sia così per il Procuratore di Catanzaro. In questo ostinato non arrendersi mai i destini della Calabria e di Gratteri si incrociano: non cedere all’indifferenza è uno dei modi più forti per fare i conti con il proprio essere cittadini di questo tempo, anche – soprattutto – quando gli altri fanno da spettatori o ci dileggiano. Perché ci permette di dire a testa alta “sì, sono calabrese”, quando gli altri ci bollano come inaffidabili e criminali. Perché, parafrasando il monologo dei “Cento passi”, non è affatto vero che la mafia ci identifichi, ci dia sicurezza, ci piaccia.

Qualcuno si chiede perché la ‘ndrangheta sia disposta ad attirare su di sé l’attenzione con un attentato eclatante proprio ora che l’attenzione generale si è spostata sulla guerra (dopo esserlo stata sulla pandemia). Lo vuole innanzitutto perché Gratteri continua a fare male, perché sa come e dove colpire: è il magistrato più esperto e competente nella lotta alle mafie, è quello che ha ottenuto i risultati più importanti contro il narcotraffico internazionale.E poi perché il suo Fort Alamo è un avamposto culturale in una società che non vuole arrendersi o abituarsi. È in assoluto il magistrato antimafia più popolare in Italia e, forse, nel mondo. E la ‘ndrangheta vive di consenso, oltre che di paura. Se una parte dell’opinione pubblica è sempre vigile, lo Stato è costretto a non mollare la presa.

In sintesi: le cosche vogliono far saltare in aria Gratteri esattamente per gli stessi motivi per cui in tanti chiedevano che guidasse la Procura nazionale antimafia.

Tra i personaggi che oggi solidarizzano con il Procuratore di Catanzaro ce n’è qualcuno che ha gioito per il fatto che il Csm abbia preferito un altro alla Procura nazionale antimafia. Era noto che Nicola Gratteri avesse pochissime chance di vincere la partita contro Giovanni Melillo, ma tanti ne sono rimasti ugualmente stupiti. Al punto che i titoli non sono stati sul vincitore Melillo, ma sul “perdente” Gratteri che – semplicemente – era il più adatto a ricoprire quel ruolo.

Ovviamente questo voto non dipendeva né dai risultati né dall’opinione pubblica, ma dalle correnti del Consiglio superiore della magistratura e quindi da una serie di equilibri e di valutazioni di tipo politico. Come ha efficacemente commentato il Presidente della Regione Roberto Occhiuto, «il sistema delle correnti all’interno dell’organo di autogoverno della magistratura spesso si impone anche al buon senso e alla logica».

In pieno braccio di ferro sulla riforma Cartabia, in pieno scontro sull’idea stessa di giustizia, uno come Gratteri, che certo non le manda a dire, avrebbe rappresentato un punto di forte rottura. Il sistema non poteva permetterselo e lo ha bloccato, anche a fronte di conseguenze gravi, sottolineate dai consiglieri Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo durante il dibattito che ha preceduto la votazione al Csm.

«L’esclusione di Gratteri sarebbe non solo la bocciatura del suo impegno antimafia, ma un segnale devastante a tutto l’apparato istituzionale e al movimento culturale antimafia», aveva detto Ardita. E prima di lui Di Matteo aveva avvertito: «Gratteri è negli ultimi anni particolarmente sovraesposto e particolarmente a rischio per la propria vita. La criminalità organizzata ne percepisce l’azione come ostacolo concreto e immanente. In questa situazione temo che una scelta diversa suonerebbe come una sorta di bocciatura dell’operato di Gratteri. Non verrebbe compresa dall’opinione pubblica e agli occhi dei mafiosi risulterebbe come una pericolosa presa di distanza istituzionale di un magistrato così esposto».

La domanda è: cosa succederà ora? Gratteri cosa farà? Intanto chi voleva che perdesse la partita della Procura nazionale antimafia per indebolirlo e isolarlo, ora se lo ritrova più forte nell’opinione pubblica, tant’è che spera vada a fare il Procuratore di Napoli al posto di Melillo, abbandonando le indagini calabresi. Chi lo sostiene, invece, trae un respiro di sollievo: rimanendo in Calabria potrà continuare nell’opera di pulizia avviata.

Personalmente mi chiedo spesso se le cose potranno mai cambiare davvero, se – in fondo – gli ignavi e gli indifferenti non siano la vera maggioranza. Ma credo anche che per tanti calabresi sia fondamentale non abbandonare il campo: in ogni caso meritano, rappresentando la parte migliore della società, che non si arretri di un passo. Ecco perché Gratteri non deve mai ammainare quella bandiera, neppure quando la vittoria sembra lontana o addirittura impossibile: il solo fatto di non arrendersi rende migliori noi cittadini e la nostra Calabria.