La nascita di un locale di ‘ndrangheta a Roma era stata definita da Antonio Carzo come «una cosa bella». E subito dopo «aveva ringraziato» i mammasantissima degli Alvaro di Sinopoli per «l’onore ricevuto». Nasce così la prima cellula della ‘ndrangheta nella Capitale secondo gli inquirenti che hanno coordinato l’inchiesta Propaggine, che questa mattina ha portato in carcere una quarantina di persone, accusate di fare parte della cosca Alvaro, sia a Roma che in Calabria. Coinvolto anche il sindaco di Cosoleto, Antonino Gioffrè.

Gli inquirenti capitolini, nelle oltre 2mila pagine di ordinanza, ricostruiscono la genesi del locale di ‘ndrangheta a Roma, ne delineano i contorni, identificano gli attori che hanno esportato anche nella capitale d’Italia il modello vincente della criminalità organizzata calabrese.

«Paolo Iannò – si legge nell’ordinanza emessa dal gip romano - ha riferito, quale collaboratore di giustizia, seppure de relato dalle narrazioni di Vincenzo Gallace, che almeno sino alla collaborazione di quello nel 2015, non era stata installata a Roma, come a Milano, alcuna locale della ‘ndrangheta, per un patto di fatto tra le diverse strutture mafiose italiane, cioè Cosa Nostra, Camorra e Ndrangheta. O meglio, le due grandi città erano state lasciate zone libere, in cui poter certo operare in modo criminale, ma senza pretendere di avere il controllo militare esclusivo del territorio come nelle regioni di origine».

Ciò avrebbe evitato il sopravvenire di conflitti, cioè guerre di mafia, con morti che avrebbero acceso i riflettori investigativi ed aumentato i controlli di polizia, rendendo difficile il “business”.

«In sostanza – scrivono gli inquirenti - assume l’accusa che secondo Antonino Belnome, almeno sino al 2010 (esecuzione nei confronti di questa ordinanza cautelare del gip di Milano nel procedimento Infinito), per quanto sapesse, Roma come Milano non erano state oggetto di colonizzazione esclusiva del territorio. Esistevano dei piccoli insediamenti di ‘ndrangheta ma fuori le due grandi città. La ragione di ciò era legato alla regola di attirare la minore attenzione possibile dove ci sono gli affari, i business; anzi, in questi territori, come Roma o Milano, le famiglie di ‘ndrina nell’investire il denaro utilizzerebbero dei filtri, cioè terze persone. Così sul punto quanto riferito da Antonino Belsome, in riferimento al massimo camuffamento per attirare la minore attenzione possibile sulle personalità criminali, sui loro affari ed investimenti di denaro di illecita provenienza».

Orbene, secondo l’accusa «Antonio Carzo, sin dal 2015, avrebbe ricevuto l’autorizzazione per costituire un locale di ndrangheta a Roma, una “propaggine” di quella di Cosoleto ed ancora “una cosa bella”, una cosa per cui Antonio Carzo “aveva ringraziato per l’onore ricevuto”».

Un contesto che gli investigatori definiscono «assai chiaro... La particolarità di questa locale sarebbe che avrebbe avuto una reggenza diarchica composta tanto da Antonino Carzo quanto da Vincenzo Alvaro». Questa locale avrebbe quindi cominciato ad operare sul territorio, secondo l’accusa «in questo modo rispettoso del modello criminale della ‘ndrangheta, con un modello dinamico di partecipazione di diversi associati che tra loro sussumevano un comune senso di partecipazione espresso anche dalle cosiddette doti, di riunioni segrete, di esecuzione di comuni progetti criminali».

La locale romana, secondo quanto si legge nelle carte, a causa anche dell’estensione del territorio, «non ha cercato di imporre un controllo esclusivo e militare del territorio di Roma, …ma senza che ciò possa aver fatto venire meno la capacità di intimidazione mafiosa. Anzi, sappiamo come Giuseppe Penna, detto Pino, nel discutere con Domenico Alvaro cl.76, inteso Micu u merru, già condannato definitivo per la partecipazione alla ‘ndrangheta, abbia spiegato che lui non voleva entrare a Roma con i suoi affari se non in accordo con le altre strutturali criminali già presenti sul territorio, rappresentando a Domenico Alvaro come si trattasse di prendere il controllo di fatto di alcuni bar ristoranti che un imprenditore appena scarcerato gli aveva portato mettendosi a disposizione».

«In sostanza, una continua fluidità in cui il dinamismo criminale era in via principale collegato al riciclaggio di illeciti profitti, alla costruzione di affari mediante società schermo, ad infiltrarsi nei settori sani dell’economia locale, nell’inquinare i rapporti imprenditoriali e politici sul territorio, nonché a creare le migliori condizioni per aiutare i partecipi del locale dando loro una retribuzione giustificata mediante una formale occupazione, anche se magari mai svolta nella forma continuativa, e soprattutto per dare aiuto anche ai carcerati in caso di bisogno».