Nel capannone intestato alla società di merchandising “We are Milano” spuntano anche mitragliette e carabine. In manette un 50enne accusato di aver ricevuto 40mila euro da Beretta e Bellocco per proteggere un imprenditore in Sardegna
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Il capannone in cui è stato trovato l’arsenale da guerra della Curva Nord dell’Inter era in un immobile in affitto a Cristian Ferrario, 50 anni, e intestato alla società di merchandising interista “We are Milano”. Maglie nerazzurre in vendita per i fan e kalashnikov: il filo porta subito ad Andrea Beretta, ex capo ultrà oggi pentito. Ha promesso ai magistrati della Dda di Milano di raccontare gli ultimi 30 anni di affari della Nord, molti pensano che abbia iniziato proprio da quel capannone di Cambiago.
C’erano kalashnikov, bombe a mano e mitragliette, pistole e giubbotti antiproiettile, pettorine delle forze dell’ordine e centinaia di munizioni. Una scoperta che ha stupito anche gli uomini della squadra mobile di Milano, guidati dal dirigente Alfonso Iadevaia che ha una grande esperienza maturata anche in riva allo Stretto. Arsenale più da criminalità organizzata che da curva violenta anche se per ora ogni osservazione rimane nel campo delle ipotesi.
Di certo le armi saranno passate al setaccio dagli esperti della Scientifica per capire se abbiano già sparato. Dietro tutte le storie delle Nord resta appeso il grande interrogativo di chi abbia ucciso l’ex leader Vittorio Boiocchi, passaggio obbligato per ricostruire le scalate (tentate e riuscite) negli ultimi anni sui gradoni di San Siro.
Andrea Beretta e Antonio Bellocco: attorno a loro ruotavano affari criminali e contatti con pezzi dei clan calabresi che avevano messo occhi e mani sul business legato alla curva.
I legami con il primo sono evidenti: il magazzino si trova poco lontano da una casa di Beretta e non distante da quella di Ferrario. Quest’ultimo, ai domiciliari dopo la retata dell’Antimafia perché ritenuto un prestanome di Beretta e poi tornato libero con l’obbligo di firma, è stato arrestato per detenzione di armi da guerra.
Finora era ritenuto un personaggio marginale nella storia del tifo criminale. Era stato arrestato la prima volta per aver ricevuto 40mila euro, che sarebbero stati in realtà destinati a Bellocco e Beretta, per «eludere le misure di prevenzione patrimoniale». Una somma che mascherava il «corrispettivo della protezione mafiosa fornita» dai due a un imprenditore che «aveva effettuato investimenti in Sardegna, osteggiati con atti vandalici». L’ipotesi della Dda milanese era concorso in associazione mafiosa e trasferimento fraudolento di beni con Beretta e Bellocco.
Atti che rimandano ai tempi in cui Beretta e Bellocco, con Marco Ferdico, guidavano la Curva Nord. Un’epoca segnata da spartizione degli affari e tentativi di respingere gli assalti di altri clan calabresi prima del tragico finale e delle 21 coltellate che hanno tolto la vita al rampollo del clan di Rosarno.
Storie che si incrociano nel deposito degli ultrà nascosto a 30 chilometri dallo stadio di San Siro. Il risultato del sopralluogo dice: un kalashnikov, una mitraglietta Uzi con silenziatore, una carabina Remington, un fucile calibro 12, una doppietta da caccia, un fucile a canne mozze, un fucile Remington a pompa con matricola abrasa, una pistola Galesi, tre bombe a mano di produzione jugoslava. E poi, centinaia di proiettili di svariati calibri, due giubbotti antiproiettile, puntatori laser, pettorine (false) delle forze dell’ordine, paletta e lampeggiante. Armamentario con il quale si potrebbe iniziare una piccola guerra.