Il mare quel giorno ha inghiottito novantaquattro vite. Trentaquattro erano bambini. Ma ad ucciderli è stata la terraferma, che li guardava da lontano e non ha mosso un dito
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C’è una spiaggia, in Calabria, dove un giorno il mare non ha restituito più frammenti di vita, ma corpi. Li ha abbracciati e cullati, poi deposti dolcemente sulla riva con la cura di una madre. Ma quei figli non stavano tornando a casa. Giacevano lì, immobili, come un segreto sussurrato alla sabbia.
Il 26 febbraio 2023, un’imbarcazione si è spezzata in due a pochi metri dalla riva di Steccato di Cutro. A pochi metri. Troppo vicina per essere un miraggio, troppo lontana per essere salvezza.
Il mare quel giorno ha inghiottito novantaquattro vite. Trentaquattro erano bambini. Sogni infranti prima ancora di diventare ricordi. Respiri spenti prima di farsi voce.
Gli altri non sono stati inghiottiti solo dall’acqua, ma dai confini, dalle leggi, dai Governi che decidono chi merita di vivere e chi può affondare.
Ma il mare non è un assassino. Il mare è solo lo specchio della nostra colpa. A uccidere non è stata neanche la tempesta.
È stata l’attesa. Il tempo immobile. Il freddo che mordeva la pelle. Il fiato corto dell’ultimo respiro.
A uccidere è stata la terraferma, che li guardava da lontano e non ha mosso un dito.
I pescatori di Cutro erano lì. Hanno corso sulla spiaggia, si sono tuffati nell’acqua nera, hanno afferrato mani, hanno tirato su corpi, hanno soffiato aria nei polmoni dei bambini, sperando di riaccendere la vita.
Ma erano soli.
La Guardia Costiera è arrivata tardi. E tardi non è soltanto un ritardo burocratico.
Tardi è un cuore che si ferma. Tardi è il sangue che si raffredda. Tardi è la voce che chiama "aiuto" e riceve solo il suono delle onde in risposta.
Al cimitero di Crotone giace un bambino mai reclamato. Forse si chiamava Alì, forse Rahim. Nessuno sa il suo nome. Nessuna madre ha potuto stringerlo un’ultima volta, nessun padre ha vegliato il suo sonno. Il suo nome se lo è preso il vento.
E allora mi chiedo: dov’era Dio?
Forse era rimasto sulla riva, con i piedi nudi sulla sabbia bagnata, a guardare i suoi figli morire senza poterli salvare. Forse era nelle braccia che si tendevano nel buio. Negli occhi di un uomo che gattonava fuori dall’acqua, in cerca di un pezzo di terra che non fosse tomba.
O forse siamo stati noi ad averlo ucciso, ancora una volta, con la nostra indifferenza.
Ma Dio non muore. Muore l’uomo.
Muore un bambino con gli occhi ancora aperti. Così aperti da sembrare vivi. Muore chi ha creduto che davanti a quella riva ci fosse un posto anche per lui.
E gli altri? Gli altri sono sopravvissuti.
Ma sopravvivere non è vivere. Sopravvivere è portarsi dentro il freddo dell’acqua, il sale nelle ferite, il peso insopportabile di chi non ce l’ha fatta. Nove sono rimasti in Calabria. Gli altri sono stati dispersi altrove, lontani da quelle spiagge, lontani dai nostri sguardi, lontani dal nostro rimorso. Dicono che il mare restituisce sempre ciò che prende.
Ma chi restituirà giustizia? Chi pagherà per il ritardo, per l’indifferenza, per la sabbia ancora impregnata di morte?
E noi? Noi siamo qui, a commemorare, a ricontare i morti con la freddezza dell’abitudine. Il Potere ha già ripreso il suo rituale: parlare di sicurezza, chiudere i porti, blindare le frontiere, trasformare la disperazione in una colpa.
Ma io non voglio dimenticare.
Io non posso dimenticare.
Perché un bambino con gli occhi aperti non è solo un corpo morto, ma è una domanda.
E questa domanda brucia. Questa domanda ci incalza.
Questa domanda non troverà pace finché non avremo il coraggio di rispondere.