Preservare la memoria storica delle tradizioni pasquali mediante la trasmissione orale da parte di chi le ha vissute non è solo un dovere morale per scongiurare la totale scomparsa di esse, ma anche un atto di gratitudine verso gli anziani che sono il fondamento delle nostre comunità
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Rosina, classe ’39, nata e cresciuta a Vallefiorita (CZ) indossa il berretto di lana. Che abbia freddo lo si capisce dal fuoco ancora acceso. Si siede vicino al camino e, dato il clima mite del mese di aprile, si giustifica dicendo: “Io mi scarfu: u fhuacu è nu cumpagnu!” [Io mi riscaldo: il fuoco è un compagno!]. Non avrebbe potuto pronunciare parole più autentiche, anticipando la profondità di quanto ci avrebbe raccontato da lì a poco, tutto in puro dialetto vallefioritese.
Com’era la Pasqua quando eri ragazzina?
«Pasqua ‘na vota era bella, no comu mo. Andavamo e venivamo dalla chiesa. I giovani soprattutto, ma anche gli anziani, sai? Le signore andavano al sepolcro che veniva allestito in chiesa, si inginocchiavano e cantavano. Ognuno cantava le canzoni che sapeva. Si cantava a squarciagola. Erano canti di lamento. Una, per esempio, faceva così: Stamatina arviscìandu vennari | L’afflitta de Maria chi jia cercandu u fhigghiu | Sempa strata strata a via via. [Stamattina sorgendo il venerdì | L’afflitta di Maria che andava cercando il figlio| Sempre per strada in mezzo alla via]. Il canto continua con la Madonna che, vedendo i chiodi che venivano preparati per la crocifissione del Figlio, è caduta tre volte con la faccia per terra. Canti che venivano perpetuati per le vie del paesino fino ad arrivare al Calvario. Si usciva nel buio del mattino presto, muniti di “lumera” [la lanterna]. Lo stesso si faceva di sera, verso le undici».
E i sacerdoti partecipavano insieme a voi?
«Loro facevano le funzioni religiose in chiesa. L’omelia era lunghissima, alternata da momenti di punizione corporea in cui si frustavano tramite “u carricatura” [una frusta robusta]. Era talmente stancante, gridata a voce piena, da dover ricevere il cambio dall’altro sacerdote che intanto aspettava il suo turno. La chiesa era così piena da non riuscire a contenere tutti i fedeli. Noi bambini ci infilavamo sotto le gambe degli altri per farci strada e arrivare verso l’altare».
A casa come vivevate la festa? Cosa c’era a tavola?
«Noi lavoravamo sempre con i nostri genitori in campagna. Ma la settimana santa era festa per tutti. Sì, i genitori lavoravano e ci urlavano contro perché ci avrebbero voluti con loro, ma noi scappavamo per stare sempre nelle vie del paese. Unanimi, decidevamo di andare a salutare il Signore, al Calvario o in chiesa. Incontravamo sempre, a qualsiasi ora, le signore che facevano i lamenti davanti al sepolcro. L’unico momento che vivevamo con gioia a casa era quando le mamme iniziavano a impastare per fare la “cuzzupa”, le cassate con la ricotta, i “pittinìapiti” e con l’impasto avanzato facevano i biscotti. Noi aspettavamo che li infornassero e poi racimolavamo il nostro dolce da portare in giro. Tutta la settimana santa non si mangiava carne. La mamma ci faceva del pesce, soprattutto baccalà. E poi ci arrangiavamo con verdure, uova, fagioli… La domenica si poteva mangiare carne con la pasta fatta in casa. Chi aveva la possibilità comprava l’agnello. A casa mia era raro. A noi restavano le salsicce dall’inverno. Ma tanto a noi interessavano di più i dolci».
Qual è il dolce che ti piaceva di più?
«I “pittinìapiti”».
«Sì, quelle con la mostarda di uva. Mi divertivo a rompere le noci e inserirle io stessa nel composto. Erano molto buone. Ma quello che mi ricordo di più è la “cuzzupa” grazie alla sua forma particolare. Era un grosso biscotto lungo su cui veniva messo un uovo, tenuto fermo da due strisce di pasta a mo’ di croce. Spesso si creavano pure le mani e i piedi. Tutta la cuzzupa alla fine aveva una forma intrecciata. Per le femminucce, veniva decorata anche con la collanina e la “fhaddaleda” [il grembiulino], tutto creato con fili di pasta intrecciati. Per i maschietti era più semplice. Servivano tante uova, sia nell’impasto sia come decorazione. Ma chi non aveva le galline non poteva permettersele. Quindi comprava “l’ovaiola”, una farina sostitutiva. Era importante fare i dolci».
Un’usanza del passato che adesso è scomparsa?
«In inverno si iniziava a fare la “grasticeda”. In un barattolo si metteva del materiale umido per favorire il germogliare del grano. Da gennaio lo si teneva al buio, innaffiandolo quando necessario. Qualcun altro seminava anche ceci o piselli. Poi veniva decorato con un nastrino e si metteva al sepolcro».
Cosa rappresentava quella piantina?
«Quando la Madonna andava in cerca di Gesù passava per diversi campi. Quando incontrò quello di grano, le spighe si aprirono velocemente lasciandola passare con facilità. Per questo motivo lo benedisse».
Perché era importante ricordare i momenti vissuti da Gesù e Maria attraverso gesti come quello della grasticeda?
«Perché ci facevano sentire più vicini a loro. Poi in piazza si teneva “a pigghjiata”. Era bellissima, ma non riuscivo mai a vederla tanto bene!»
Perché? Di cosa si trattava?
«Per tre mesi gli attori si preparavano per imparare al meglio le parti da recitare. Si metteva in scena tutta la vita di Gesù, da quando era piccolo a quando è stato crocifisso. Ottenere la parte era un grande onore. C’era quello che noi chiamavano “U diavulu zuappu” [il diavolo zoppo] che interpretava Giuda ed era veramente un signore zoppo. Si stava attenti alla scelta degli attori. Al momento della messa in scena - il giovedì o il venerdì santo - l’intera piazza principale diventava un palcoscenico, chiudendo tutte le strade che portavano a essa con delle porte enormi. Nessuno poteva accedere senza il biglietto. Noi non avevamo mai i soldi per il biglietto e quindi aspettavamo che le guardie si stancassero per poter intrufolarci. Ma era talmente pieno di gente da non riuscire a vedere niente comunque! Qualche volta capitava che un’anziana che abitava nei dintorni faceva salire i bambini sul balcone. La rappresentazione era così bella che i paesini facevano a turno per ospitarla. Un anno Vallefiorita, il successivo un altro paese. Non poteva ripetersi per due anni di seguito nello stesso. Oggi non c’è niente di tutto questo».
Di recente ho assistito alla “Cunfrunta”. Almeno questa tradizione è rimasta.
«Sì, a modo suo. Ma è cambiato tutto. Non c’è la sacralità di una volta. Adesso si porta in giro il santo solo per ottenere soldi. Al tempo si chiedevano soldi, sì, ma non si faceva l’elemosina. La gente li metteva volentieri perché si sentiva parte della chiesa. Le donne litigavano per portare la Madonna in processione. Infatti, dovettero adoperare un sistema di sorteggio per decidere chi potesse portarla. Oggi sono pochi i fedeli. Sembra che ci si vergogni di essere devoti al Signore. A quel tempo non ci serviva sentire le campane né l’invito da parte del prete. La porta era sempre aperta e tutti andavano quando volevano. Non si andava solo per la messa».
Forse le tradizioni sono cambiate perché non c’è più la fede di un tempo. Non trovi?
«Sì, ma dovrebbero essere ristabilite per quei fedeli che sono rimasti. U Signura ni perduna a tutti».
Il Signore ci perdona tutti, sì, ma a prescindere dalla fede religiosa, perdere le tradizioni religiose equivale a perdere le tradizioni identitarie e culturali dei nostri paesi, rinunciando a un’affascinante spettacolarizzazione dei culti.
Con gli occhi lucidi, Rosina ci spiega che la Pasqua di un tempo - lungi dall’essere solo un momento di profonda spiritualità - era motivo di unione comunitaria e sociale, in cui ciascuno diveniva protagonista e l’intero paese si mutava in palcoscenico. Opere come “a pigghjiata” intrattenevano il pubblico, lo stesso pubblico che dava il suo contributo con canti di lamento. L’esigenza umana di rifiutare la morte esorcizzandola con il pianto rituale (se vogliamo pescare gli insegnamenti dell’antropologo E. De Martino) veniva confermata durante la Settimana Santa, dimostrando come Gesù fosse Uomo, Fratello, Figlio di tutti loro. Il divino che si fa carne e viene riconosciuto dalla carne. E - che fosse vero o meno (a ciascuno il libero arbitrio) -, senza dubbio diventava reale nella messa in scena corale allestita dalla comunità. Le memorie di Rosina sono una splendida finestra sul passato il cui panorama offre un affascinante spaccato che, sebbene passato, continua a vivere nei cuori dei calabresi che l’hanno vissuto.