I legali dell’ex parlamentare cercano di minare la credibilità del detenuto che ha reso dichiarazioni al processo. Mentre il pm Annamaria Frustaci assicura accertamenti sul denunciato pestaggio in cella da parte di Ferrante e Guzzo (ASCOLTA L'AUDIO)
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«Signor Mangone, parli piano perché qui non stiamo capendo nulla». Il richiamo del presidente del Tribunale collegiale, Brigida Cavasino, è servito solo in parte. La voce che rimbalza in collegamento video, la cadenza di emigrato calabrese di 58 anni, partito dalla piccola Cariati per raggiungere il Nord Est quando era appena ventenne: insomma, ce n’era abbastanza per complicare la seconda parte del racconto di Antonio Genesio Mangone, il detenuto che con le informazioni “scottanti” apprese in cella ha complicato, sulla carta, la posizione di Giancarlo Pittelli, uno dei principali imputati di Rinascita Scott. «In carcere lei è sottoposto a qualche terapia?» gli hanno chiesto dall’aula, insospettiti dalle brusche accelerate del suo eloquio. «Assolutamente no» ha risposto Mangone. Ieri, sulla scena del maxiprocesso in corso nell’aula bunker di Lamezia Terme, era in programma l’epilogo del suo controesame.
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A tastarne l’autenticità ci hanno pensato proprio i difensori del penalista catanzarese, Giancarlo Pittelli, già parlamentare di Forza Italia. L’avvocato Guido Contestabile gli ha fatto lo “screening” sulle informazioni che sostiene di aver appreso da Gianfranco Ferrante e Michelangelo Barbieri. Dice che Pitelli dava aiuto in ambito sanitario alla famiglia Mancuso, «ma che tipo di aiuti e a chi precisamente?» lo ha incalzato l’avvocato. «Dicevano che era a disposizione», la risposta del dichiarante. E le agevolazioni bancarie che era in grado di ottenere per lo stesso clan, «presso quale banca e quando?» ha domandato Contestabile. «Dico quello che ho sentito». E avanti così, con l’obiettivo evidente di evidenziare la vaghezza delle sue dichiarazioni per metterne in dubbio l’attendibilità.
Antonio Genesio Mangone sta scontando dodici anni e otto mesi per associazione mafiosa incassati in un processo – nome in codice “Camaleonte” – che nei primi due gradi di giudizio ha accertato la sua partecipazione a una costola veneta del clan Grande Aracri. Un’accusa che il diretto interessato ha respinto ieri in aula – «Non ho mai avuto a che fare con queste persone» – soffermandosi poi sui suoi trascorsi tortuosi da collaboratore di giustizia. Sette mesi circa, da dicembre a luglio del 2021, periodo durante il quale ha contribuito a far condannare gli altri imputati del processo veneziano. Qualcosa però non ha poi funzionato. Fra lui e la Dda è sorto «un disguido», «qualcosa si è bloccato» o peggio ancora «non ho voluto cedere a quello che diceva la Procura». Tirargli fuori una spiegazione non è stato semplice, ma alla fine il diretto interessato l’ha spiegata così: «Ci sono un sacco di imprenditori del Nord Est che fanno riciclaggio, io sostenevo che queste persone fossero coinvolte, ma per la Procura erano vittime».
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Salvatore Staiano, codifensore di Pittelli, ha alzato il tiro partendo proprio da qui. Quando entra nel carcere di Siracusa e approda in cella con Ferrante e Barbieri, Mangone è già un ex pentito. «La sentenza del processo Camaleonte è di giugno del 2021, lei va a Siracusa a luglio. Possibile che i due imputati non sapessero chi fosse lei?». E ancora: «Possibile che abbiano parlato con lei, addirittura di “perno della cosca” – Pittelli, ndr – in violazione di qualunque regola d’omertà?». È stato il prologo a un alterco, pochi secondi, ma intensi. «Ci pensi a una terapia» ha sibilato Staiano, paventando anche una richiesta di trasmissione atti in Procura. «No, avvocato, è lei che ne ha bisogno» ha urlato Mangano dalla videoconferenza. Una fiammata, ma tutto è tornato poi alla normalità.
In conclusione, Francesco Muzzopappa, difensore di Salvatore Bonavota, gli ha preso letteralmente le misure: quanto era lungo il corridoio della sezione carceraria? E la cella di Bonavota quanto distava dalla sua? Dati utili per la futura arringa, con una domanda a svettare sulle altre: «Ha fatto lei richiesta per cambiare cella?». Mangano annuisce. «Strano» la chiosa del legale. «Tutto normale» per il detenuto. L’ultima parola è andata poi al pm Annamaria Frustaci che ha provato a riequilibrare il fronte della credibilità. Tra le altre cose, gli ha chiesto conto del pestaggio subito in cella da Ferrante e Guzzo. «Tutto denunciato, tutto documentato» ha assicurato Mangone, confermando anche il suo desiderio «di riprendere la collaborazione con la giustizia». Il pubblico ministero ha garantito ulteriori accertamenti. Un’istruttoria nell’istruttoria, c’è posto anche per questo. Oggi, intanto, nuova udienza.