Le confessioni del broker calabro-piemontese davanti agli inquirenti italiani. Storia di un ragazzino nato in seno alla cosca Gallace e affiliato con gli Alvaro a 21 anni. Le rapine ancora minorenne e poi la via del droga e del Sudamerica
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Pentito perché i suoi stessi sodali volevano ucciderlo.
Il 28 marzo scorso Vincenzo Pasquino, 34 anni, uno dei più importanti broker del narcotraffico internazionale, ha parlato per la prima volta con gli inquirenti italiani. Era arrivato in Italia sei giorni prima, estradato dal Brasile dove era stato arrestato il 24 maggio del 2021 a Joao Pessoa mentre si trovava insieme al boss della 'ndrangheta Rocco Morabito.
Già interrogato in Sudamerica, Pasquino confessa che il suo proposito di collaborare con la giustizia nasce dall’aver appreso da Peppe Romeo, detto U Maluferru, che i suoi sodali reggini e catanzaresi volevano abbandonarlo, anzi, sbarazzarsi proprio di lui. Così, dopo essersi nascosto dalle forze dell’ordine, Pasquino ha capito che l’unico modo per salvare la pelle era quello di saltare il fosso. Le sue dichiarazioni hanno dato un contributo importante all’operazione Samba condotta dalla Dda di Torino contro i boss del narcotraffico internazionale legati alle cosche resilienti in Piemonte che ha portato al fermo di 23 persone: 5 in Italia e 18 in Brasile.
Genesi: il taglio della coda
Pasquino, nato a Torino nel 1990, racconta che il taglio della coda – gergo ‘ndranghetista per rappresentare l’entrata nell’onorata società – è avvenuto nel 2011 per mano della famiglia Alvaro. Niente di solenne, serviva un luogo sicuro e l’affiliazione avvenne in una carrozzeria di Brandizzo, vicino Torino, approfittando della semilibertà del boss Mico Alvaro, mammasantissima dell’Aspromonte, e con la presenza del broker Vittorio Raso. Una scelta non scontata, quella di legarsi ai reggini Alvaro, visto che la sua famiglia, confessa Pasquino, è sempre stata proiezione dei Gallace di Guardavalle, in provincia di Catanzaro.
In un primo momento Antonio Agresta, 64 anni, di Platì aveva provato a tirarselo dietro dicendo che non era indispensabile affiliarsi, visto il pedigree familiare. Venne convinto a cambiare idea dal broker Vittorio Raso – anche lui catturato da latitante in Spagna e anche lui oggi collaboratore di giustizia – e da Michelangelo Versaci, finito nell’inchiesta Samba e descritto da Pasquino come referente di Platì a Volpiano.
Gli dissero che era importante affiliarsi e stare con gli Alvaro anche perché gli Alvaro e gli Agresta avevano il Sangiovanni (una sorta comparaggio), quindi erano una cosa sola. E taglio della coda fu. Aveva 21 anni.
Know-how di un broker: quando la fama ti precede
Quando la famiglia d’origine lo venne a sapere non la prese benissimo. Lo rimproverarono di essersi scelto un’altra famiglia (di ‘ndrangheta) quando già aveva la sua. Tra l’altro, gli Alvaro avevano deciso per lui: il suo ruolo nella ‘ndrangheta doveva essere quello di occuparsi del traffico di stupefacenti. D’altronde il suo curriculum lo precedeva: da ragazzino, ancora minorenne, si era occupato di rapine e in seguito di droga.
E poi, ultimo ma non ultimo, la referenza più importante: la discendenza ‘ndranghetista, passepartout indispensabile per contrattare con cartelli sudamericani del calibro del Primeiro Comando da Capital, la feroce organizzazione terroristica brasiliana. Perché il PCC non trattava con soggetti non introdotti in famiglie di ’ndrangheta. E la stirpe di Pasquino era riconosciuta.
Peccato che a nulla sia bastato essere un fedele servitore dell’onorata società la quale non avrebbe esitato a mettere a morte uno dei suoi broker migliori, ormai messo in fuga e braccato su due continenti.