Processo Reset

«Pagai duemila euro al giudice Petrini per favorirmi, un avvocato fece da tramite»: le confessioni scottanti del pentito Presta

Il cugino del boss Franco scatena una bagarre in aula con rivelazioni inedite. Fa i nomi di «capi mafia che hanno avuto rapporti con i servizi segreti e pagavano parcelle esose ad alcuni legali per corrompere il magistrato e chi gli stava a fianco»

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di Alessia Truzzolillo
23 luglio 2024
18:27
Da sinistra, il giudice Petrini e il pentito Roberto Presta
Da sinistra, il giudice Petrini e il pentito Roberto Presta

Duemila euro per pagare il giudice Marco Petrini ed essere favorito nel godere di maggiore libertà durante la detenzione domiciliare. Lo ha raccontato il collaboratore di giustizia Roberto Presta, cugino del boss Franco Presta, nel corso dell’udienza di oggi del processo Reset. Controesaminato dall’avvocato Lucio Esbardo, alla precisa domanda su una sua conoscenza con il giudice sospeso della Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro, Presta ha affermato che il giudice Petrini «mi ha favorito, ero ai domiciliari e mi ha favorito che potevo uscire dalle sei alle nove. Poi, di sua iniziativa, mi ha dato 30 minuti in più».

Ma come ha fatto Presta a consegnare il denaro al giudice in cambio di questi favori? «Non l’ho fatto io ma tramite un avvocato». Sul nome del legale però il pentito si è fermato perché il dato è ancora delicato e al vaglio degli inquirenti come anche aveva fatto notare il suo legale, l’avvocato Claudia Conidi.


«Parcelle esose per pagare Petrini e chi gli era a fianco»

Un certo di trambusto è sorto in seguito alla domanda se il collaboratore in passato avesse avuto contatti con i servizi segreti. «Io personalmente no – ha detto Presta – Però vi posso dire una cosa. Io non ci ho avuto mai a che fare però ci sono persone con le quali sono stato insieme in carcere, non ragazzi, capi di 60, 70 anni, che ancora adesso sono capi che ci hanno avuto a che fare». Questi capi avrebbero avuto a che fare anche con avvocati «che prendevano, soltanto per fargli vedere un foglio, 5000 euro, poi ne volevano 40 per un processo perché dovevano dare i soldi al giudice Petrini, a chi c’era a fianco. Io queste cose le ho dichiarate a Salerno e a Bari».

I capi mafia e i servizi segreti

A questo punto è scattato un certo altrerco, con toni duri, tra l’avvocato Luca Acciardi e il collaboratore, nel momento in cui il legale ha chiesto a Presta di fare i nomi, visto che «si sta infangando un’intera classe di avvocati e giudici». L’alterco è stato interrotto dal presidente del collegio, Carmen Ciarcia, che ha chiesto all’avvocato Esbardo: «Queste domande che cosa ci devono far capire? Che il teste sta dicendo fesserie?».

«Certamente», ha risposto il difensore. A questo punto il presidente ha preso in mano le redini dell’udienza e ha chiesto direttamente al collaboratore a quali capi mafia si riferisse riguardo alle sue esternazioni.

«Maurizio Gallelli, Maurizio Tripodi, Maurizio Gallace, Antonio Altamura, Vincenzo Taverniti e un tale che lo chiavano solo Giovanni», ha risposto spedito Presta. Il periodo di detenzione al quale si corrispondono questi dialoghi è, dice Presta, il 2013/2014.
Basta così, il Tribunale di Cosenza non ha inteso sapere altro anche alla luce del fatto che, come ha precisato l’avvocato Claudia Conidi, queste rivelazioni si riferiscono a un interrogatorio di pochi mesi fa.

«Ricordati che Luca Bruni deve morire»

«Ricordati che Luca Bruni deve morire». Una sentenza di condanna già decisa nel carcere di Cosenza e ribadita da Francesco Patitucci a Daniele Lamanna che era andato a salutarlo prima di lasciare il carcere.

A raccontare i particolari di una riunione che decretava la morte dell’ultimo esponente della cosca dei “Bella Bella”, ucciso a gennaio 2012, è il collaboratore di giustizia Roberto Presta nell’ambito del processo Reset, istruito dalla Dda di Catanzaro contro le cosche confederate di Cosenza.

Presta racconta di essere stato catturato, mentre era latitante, il sei agosto 2012. Viene condotto nel carcere di Cosenza, «secondo piano cella 10». Qui si trovava anche Francesco Patitucci. I discorsi vertono sul fatto che «Bruni non voleva stare alle regole».

La riunione nella cella degli Abbruzzese

Presta racconta che si tenne una riunione nella cella degli Abbruzzese. «Era un Abbruzzese di Cassano e uno di Cosenza, non ricordo tutti i nomi, uno dei due si chiamava Tonino».

Alla riunione sarebbero stati presenti Mario Gatto, Renato Piromallo, Roberto Porcaro e Francesco Patitucci. Qui si ribadisce il fatto che Bruni non voleva stare a certe regole che il gruppo criminale aveva stabilito.

Quando Daniele Lamanna viene scarcerato, prima di andare via, sostiene Presta, passa dalla cella di Patitucci per salutarlo e questi gli avrebbe ricordato quanto deciso in quella riunione e ribadito: «Ricordati che Luca Bruni deve morire».

Le sette doti di Roberto Presta

Roberto Presta sostiene di avere ricevuto la prima e la seconda dote da suo padre, suo cugino e suo fratello. La terza dote, lo sgarro, l’avrebbe avuta in carcere a Cosenza nel 2012 da Mario Gatto e Francesco Patitucci. Nel carcere in quel periodo sarebbero stati presenti anche il fratello di Presta, Antonio, Piromallo e Salvatore Ariello. Questi ultimi, però, non avrebbero partecipato al conferimento della dote «per non dare nell’occhio perché c’erano le telecamere». Per il conferimento dello sgarro «mi hanno fatto una croce sulla mano destra con una lametta e quello è il segno che uno c’ha la terza».

Formule di rito e conferimento doti. Ma Presta non ricorda

Roberto Presta sostiene anche di avere ricevuto in carcere a Catanzaro la dote della Santa da Patitucci, Di Puppo, Gallace, Tripodi e Altamura. Avrebbe poi ricevuto, scalando ogni scala gerarchica, anche la dote di Vangelo, Trequartino e nel 2020 a Cosenza la dote di Padrino, conferita da suo fratello e Michele Lentini.

Nonostante questa pletora di doti, il collaboratore, tempestato di domande dal pm Corrado Cubellotti, ha affermato di non ricordare né le formule di rito di affiliazione che le varie fasi di conferimento di una dote. Dopo svariati tentativi, incalzato e più volte corretto dal magistrato, si è arreso: «Non mi ricordo bene».

 

 

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