Trentamila le conversazioni intercettate tra i detenuti e chi stava fuori, il procuratore di Catanzaro: «Un vulnus alla sicurezza pubblica non indifferente, le soluzioni ci sono e vanno adottate»
Tutti gli articoli di Cronaca
PHOTO
L'odierna indagine condotta dalla Dda di Catanzaro ha colpito la ‘ndrina La Rosa. Secondo quanto emerso dalle investigazioni condotte dalla Guardia di finanza di Catanzaro e Vibo Valentia il presunto capo dell'organizzazione detenuto in carcere avrebbe continuato a mantenere il suo ruolo di vertice nonostante la detenzione grazie a sistemi di comunicazione che circolavano nell'istituto penitenziario attraverso cui riusciva a impartire direttive ai sodali su attività di estorsione e la commissione di altri reati.
Un importante ruolo avrebbero svolto le donne dei vertici del clan, nei confronti delle quali ci sono gravi indizi di colpevolezza relativamente alla gestione delle finanze e alla riscossione delle estorsioni. Si occupavano inoltre, secondo quanto emerge, di assicurare i contatti tra carcere e ambiente esterno, procurando i telefoni cellulari, effettuando le ricariche nonché diffondendo istruzioni e messaggi funzionali al mantenimento della struttura criminale.
Sono 50 i telefoni monitorati, le investigazioni hanno rilevato 2mila telefonate a settimana, 30mila le conversazioni intercettate.
Curcio: «I detenuti comunicavano dalla cella»
La Guardia di Finanza, i comandi provinciali di Vibo Valentia e Catanzaro con il supporto di personale dello Scico di Roma hanno eseguito un provvedimento restrittivo della libertà personale nei confronti di 10 persone, di cui 7 persone sono state raggiunte da ordinanza di custodia cautelare in carcere e 3 agli arresti domiciliari. Nel caso specifico è stata colpita ed è stata verificata attraverso l'acquisizione di gravi indizi di colpevolezza l'attività criminale della cosca del Vibonese, aderente alla costellazione dei Mancuso di Limbadi, per come specificato in conferenza stampa dal procuratore capo di Catanzaro Salvatore Curcio.
L’esistenza e l’operatività della ‘ndrina erano state già accertate con sentenze definitive che risalgono addirittura al 1990. Successivamente ulteriori accertamenti giudiziari hanno riconosciuto le attività del gruppo criminale che dopo una prima fase in cui era possibile fare un distinguo tra quelli della città, così come venivano definiti, e quelli del mare, c'è stata una reductio ad unitatem della cosca, che ha mantenuto una sua unitarietà fino ai giorni nostri.
«La rilevanza dell'indagine odierna – ha sottolineato Curcio in conferenza – riflette una problematica oramai di carattere nazionale che sta assumendo i veri e propri contorni di un allarme sociale. La tematica è quella dell'utilizzazione da parte di soggetti detenuti in carcere di dispositivi di comunicazione, nella fattispecie apparati radiomobili cellulari, ma il discorso riguarda anche tablet e la comunicazione addirittura di tipo telematico attraverso wifi».
Un problema, ha rimarcato il procuratore, «che si trascina oramai da anni e che ha indotto il nostro legislatore nel 2020 a introdurre nel nostro codice penale una autonoma fattispecie di reato che è quella prevista e punita all'articolo 391 ter che punisce l'utilizzo o chi consente l'utilizzo da parte di soggetti detenuti di strumentazione di tale genere».
«Evidentemente – ha aggiunto – l'avere introdotto una fattispecie penale autonoma non è comunque risolutivo della problematica se è vero com'è vero che i dati diffusi dal dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria individuano nell'anno 2022 la scoperta e il sequestro di 1.084 apparati radiomobili cellulari clandestini, nel 2023 il numero sale a 1595 e nel 2024, cioè l'anno scorso, siamo passati a 2252 apparati radiomobili cellulari individuati e sequestrati nelle carceri».
Un dato, ha puntualizzato il procuratore, «oltremodo allarmante perché la comunicazione incontrollata dall'interno del carcere da parte di soggetti detenuti per gravissimi reati, quali possano essere ovviamente i reati di associazione di tipo mafioso o di associazione terroristica, rappresenta un vulnus alla sicurezza pubblica non indifferente».
Le estorsioni commissionate dal carcere
Un allarme di carattere generale confermato dall’indagine della Dda di Catanzaro. «Abbiamo riscontrato l'ultra attività di questa ‘ndrina di Tropea e Ricadi, facente capo alla famiglia La Rosa – ha spiegato Curcio –, realizzata attraverso l'utilizzo di apparati radiomobili cellulari da parte dei detenuti in carcere che utilizzavano questo sistema di comunicazione per impartire direttive ai propri sodali, per consumare gravi reati contro il patrimonio. Reato per eccellenza ovviamente il delitto di estorsione, per cui venivano commissionate a chi stava fuori determinate attività e dati suggerimenti e direttive su come comportarsi».
Uno dei maggiorenti dell'organizzazione, ha specificato Curcio, era in stato di detenzione. «Abbiamo acquisito gravi indizi sul fatto che questo soggetto continuasse a rivestire un ruolo attivo nell'organizzazione. La preoccupazione da questo punto di vista è massima».
Le soluzioni al problema adottate negli altri Paesi
Le soluzioni a questa problematica, però, esistono e sono state già sperimentate. «In altri Paesi e anche in Italia – ha raccontato Curcio – ci si era in un primo momento adoperati per studiare delle possibili soluzioni, che potrebbero essere l'adozione di accorgimenti quali la schermatura degli istituti penitenziari per evitare il passaggio delle onde, rendendo impossibile poter comunicare dall'interno del carcere mediante l'utilizzo di questi dispositivi. Ma ci sono anche altre possibilità, in Francia per esempio sono stati utilizzati dei veri e propri dissuasori, che creano una sorta di nebbia elettronica per cui impediscono alle onde di propagarsi. Sono utilizzati non solo in Francia, ma anche in Germania e nel Regno Unito. Negli Stati Uniti hanno adottato un sistema un pochino più costoso e più sofisticato che sono i Managed access systems, i Mas, che funzionano come doganieri digitali, creano una rete di cellulari fittizia dentro il carcere che filtra ogni dispositivo, quindi una volta agganciati quelli che sono autorizzati vengono lasciati liberi di operare, agli altri viene impedito qualunque tipo di connessione e vengono identificati, individuati e bloccati all'istante».
«Ora – ha aggiunto il procuratore – qualunque sia la soluzione che si intende adottare ben venga, perché secondo me abbiamo raggiunto un livello tale per cui una qualche soluzione deve essere assolutamente adottata al fine di prevenire quello che sta accadendo oggi. I condannati per gravi reati associativi possono continuare a partecipare o addirittura a gestire l'associazione dall'interno delle carceri».