Sul banco dei testimoni il collaboratore Francesco Michienzi: «Eravamo i pulcini di una stessa chioccia». La sfida ai Mancuso, il patto di sangue coi Bonavota, l’ascesa e il radicamento dei padroni dell’Angitolano
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«Eravamo tutti i pulcini di una stessa chioccia e la chioccia era Rocco Anello». La prima gola profonda del clan Anello-Fruci all’esordio nel maxiprocesso Imponimento: collegato in videoconferenza con un l’aula bunker di Lamezia Terme, Francesco Michienzi risponde alle domande del pm Chiara Bonfadini. «L’obiettivo del clan era scalzare i Mancuso. E a Pizzo, che era un porto di mare, bisognava scalzarli dalla gestione dei villaggi turistici», dice il collaboratore assistito in aula dall’avvocato Claudia Conidi.
La sfida ai Mancuso si inseriva in un contesto che vedeva gli Anello di Filadelfia federati non solo ai Fruci, ma anche ai Bonavota, almeno dal 2003, ovvero dopo l’esecuzione delle misure cautelari dell’operazione “Prima” che disarticolò, a suo tempo, il clan filadelfiese. «I proventi, nella zona di nostra competenza, dovevano essere spartiti tra gli Anello, i Fruci e i Bonavota – continua il dichiarante -. Vi porto un esempio. Una volta, un imprenditore legato ai Lo Bianco, Salvatore Evalto, prese dei lavori sul costone di Pizzo, grazie ai Mancuso. I Bonavota gli incendiarono l’escavatore. Funzionava così». L’area di influenza del cartello guidato da Rocco Anello, unitamente al fratello Tommaso, ed in perfetta simbiosi con i fratelli Giuseppe e Vincenzino Fruci, si reggeva sull’asse Filadelfia-Acconia di Curinga, ma si estendeva su tutto l’Angitolano, fino a Francavilla Angitola «dove c’era Claudio Fiumara».
Il picciotto, i pizzini, gli omicidi
Francesco Michienzi criminalmente crebbe alla fine degli anni ’90, quando strinse amicizia con i fratelli Fruci. Poi la fratellanza mafiosa con gli Anello, che non furono mai fiaccati neppure dalla detenzione del boss che – spiega il collaboratore – era in grado di mandare ordini fuori dal carcere «grazie alla moglie, Angela Bartucca, eall’imprenditore Francesco Mallamace. Ciò avveniva grazie a dei bigliettini che Rocco Anello scriveva in maniera millimetrica e poi cuciva o nelle tasche dei pantaloni o nelle brioches. Così quello che diceva arrivava fuori dal carcere».
Michienzi – che riconosceva anche in Tommaso Anello «un capo» – era un azionista, chiamato ad effettuare danneggiamenti ed intimidazioni unitamente ad altri “soldati” del gruppo. Tra questi cita Santo Panzarella, affiliato agli Anello che intrecciò una relazione proprio con la moglie del boss Rocco e poi fu inghiottito dalla lupara bianca nel 2002. Michienzi fu testimone diretto di quell’atroce esecuzione, così come prese parte alla pianificazione di un delitto eccellente, ovvero quello di Raffaele Cracolici alias Lele Palermo, il boss di Maierato trucidato a Pizzo nel 2004, su mandato dei Bonavota.
I capi e gli eredi
Michienzi delinea il ritratto di un clan potente, radicato e soprattutto strutturato: «Rocco era il capo e lui pretendeva di sapere tutto. Diceva “a me non importa che mio fratello ha il San Giovanni con i Fruci, io devo sapere tutto da tutti”. Tommaso, il fratello, era come lui, poi c’erano i Fruci. Io ricevevo ordini dai Fruci e questo significava che Rocco lo sapeva. Se li ricevevo da Rocco non era necessario che altri sapessero». C’erano i vertici e c’erano i soldati. Allevato in questo contesto, poi, colui il quale, in sintesi, diventa una sorta di erede designato al trono della cosca, ovvero Rocco junior, figlio di Tommaso. Rocco junior, a dire del pentito, è «un ragazzo educato». Diversamente da Francesco Antonio Anello, figlio di Rocco, che «pensava di poterci rimproverare come il padre. Un giorno ci riproverò per una macchina rubata, della quale non ne sapevamo nulla. Ci disse, pubblicamente, di cacciare fuori la macchina altrimenti ci avrebbe presi a schiaffi. Ci mise in imbarazzo davanti a tutti. Ricordo che Vincenzino Fruci quel giorno non lo picchiò solo per rispetto a suo padre».
Il rapporto con Vallelunga
L’unica autorità mafiosa sovraordinata che gli Anello-Fruci riconoscevano, in pratica, sarebbe stata quella di Damiano Vallelunga, «che era più potente pure di Rocco». Si trattava del boss dei Viperari delle Serre, ucciso nel settembre del 2009 davanti al Santuario di Riace nella seconda faida dei boschi. «Vallelunga era una persona molto autorevole a livello criminale – spiega Michienzi – noi sapevamo che gli era stato ucciso un fratello grande e che aveva vinto più di una faida. Si era ritagliato la nomea di essere l’unico a tenere testa ai Mancuso».
Il legame con Vallelunga si sarebbe consolidato anche grazie ai favori resi dagli Anello-Fruci nella commissione di danneggiamenti ed intimidazioni. «Una volta – aggiunge – siamo stati invitati anche al matrimonio di Rocco Vallelunga, dove c’era gente degli Iannazzo, gli Aquino… Abbiamo pranzato anche a casa di Damiano Vallelunga. Poi nell’operazione Prima sono uscite fuori intercettazioni imbarazzanti di Rocco Anello, sia verso i Torcasio che gli Iannazzo e le cose cambiarono». In pratica emerse come Anello fosse una sorta di doppiogiochista nella guerra di mafia di Lamezia. Quella vicenda, così, segnò anche la fine dei rapporti con Vallelunga, che era molto legato agli Iannazzo.
I villaggi degli Stillitani
Per gli Anello l’affare più importante, che significava scalzare realmente i Mancuso, era nella gestione dei villaggi turistici: «Un giorno Rocco Anello disse: “Io mi sono fatto dieci anni di carcere e questi ne hanno approfittato, quello che ci è stato tolto ce lo dobbiamo riprendere”. Si riferiva in particolare al Club Med di Pizzo, dove i Mancuso si sarebbero imposti attraverso gli Accorinti di Briatico. Come prima cosa, allora, mi fu ordinato di andare al Club Med e sparare la guardiola». Ma gli Anello non si fermarono qui. Chiesero e poi ottennero un incontro con uno dei fratelli Stillitani, Emanuele, «l’avvocato».
«Ci andò anche Vincenzino Fruci e quando tornarono mi disse: “Ho la pelle d’oca. Stillitani ci ha accolto in maniera educata, ma Rocco Anello iniziò a subito minacciarlo, voleva 100 milioni l’anno e il controllo del villaggio. E gli disse che se non avesse fatto così una fucilata gli arriva prima da lassù, cioè da Filadelfia, e poi da là sotto, ovvero da Limbadi”. Ciò avvenne tra la fine del 2001 e l’inizio del 2002». In pratica fu in questo momento che gli Anello avrebbero messo le mani sui villaggi degli Stillitani, passati così dal controllo dei Mancuso e degli Accorinti, a quello del clan dell’Angitolano.
Fiumi di droga
Gli Anello, racconta il pentito Michienzi, trattavano droga, tanta droga. «La cocaina la portava Francesco Mallamace», ma le fonti di approvvigionamento erano diverse, dai clan del Lametino (i Gualtieri) e di Francavilla Angitola (i Fiumara) fino al boss delle Preserre, Bruno Emanuele, per la marijuana. A Filadelfia, però, arrivava anche tanta eroina: «Non so da dove arrivava, non so dove la prendeva Tommaso Anello. Però so che se ne pentì, perché poi a Filadelfia venivano tossicodipendenti da tutte le parti, erano quelli che noi chiamavamo i “drogati fradici”. Poi iniziammo a venderla ai Tripodi di Portosalvo. Ero io stesso a portarla in un bar di Portosalvo». A gestire i giri dei narcotici era Tommaso Anello, «era lui – dice Michienzi – a prendere i soldi. Poi non so se anche Rocco li prendeva, ma di sicuro sapeva. Tommaso era molto rispettato, soprattutto dai Tripodi, dei quali parlava molto bene. E i Tripodi nella loro zona erano come Rocco Anello a Filadelfia».
Il business dei boschi
Francesco Michienzi tratteggia anche gli affari nel settore boschivo del clan di appartenenza: «Un tempo il monopolio lo avevano i Ciconte, ovvero Domenico il Palla e Domenico il Cucù, grazie alla vicinanza di Damiano Vallelunga». Col tempo, però, Ciconte il Palla si legò sempre di più agli Anello e così – a dire del pentito – il monopolio si sarebbe consolidato. «Pensate che spesso Ciconte mandava soldi ad Anello, ma non come estorsione, ma come regalo, dice che gli veniva dal cuore. E poi io stesso ho avuto in prestito i suoi mezzi per fare furti e danneggiamenti. Ed una volta Rocco Anello mi diede ordine di danneggiare i mezzi di un’impresa concorrente nel commercio del legno per fare un favore proprio a Ciconte».
L’aneddoto
Sintomatico della capacità di controllo del territorio sarebbe stato, secondo il collaboratore, un episodio che vide coinvolto un affiliato agli Anello, ovvero «uno dei fratelli Pungitore». Questi ebbe uno scontro durissimo con «gli Zangari», che erano persone molto violente: «Alla fine uno dei fratelli Zangari prese a bastonate Pungitore e lo mandò in ospedale. A quel punto Tommaso Anello ci ordinò di andare a sparare alla casa degli Zangari, a bordo di una Croma svizzera rubata e con una mitraglietta Uzi». Malgrado il tentativo di ricomporre la situazione attraverso alcuni parenti di Rosarno, a dire del pentito non ci fu possibilità alcuna di sanare la situazione: agli Zangari non rimase altro, una volta terminata la sorveglianza speciale, che emigrare. Il primo fratello si trasferì in Piemonte, l’altro dovette vendere tutte le sue pecore e andarsene in Emilia Romagna.