Il delitto il 12 luglio 2004 nei pressi dell’abitazione della vittima. Il fatto di sangue ha sconvolto gli assetti mafiosi del Vibonese
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«Confermare la sentenza di primo grado». Questa la richiesta del sostituto procuratore generale di Catanzaro, Luigi Maffia, alla seconda sezione della Corte d’Appello (presieduta dal giudice Marco Petrini) nel processo per l’omicidio di Domenico Di Leo, alias “Micu Catalanu”, ucciso il 12 luglio 2004 a Sant’Onofrio. Richiesta di condanna, quindi, per il 38enne Francesco Fortuna, di Sant’Onofrio, ritenuto uno degli esecutori materiali, che in primo grado - al termine del processo con rito abbreviato - ha avuto una pena a 30 anni di reclusione.
In particolare, Francesco Fortuna (difeso dagli avvocati Sergio Rotundo e Salvatore Staiano) è accusato di aver premeditato e pianificato “nei minimi dettagli” l’omicidio portando a compimento l’agguato il 12 luglio 2004 nel centro abitato di Sant’Onofrio e precisamente in via Tre Croci, proprio nei pressi dell’abitazione della vittima che stava rientrando dall’ospedale di Vibo Valentia a bordo di una mini car.
A sostegno dell’impalcatura accusatoria, anche le dichiarazioni del collaboratore di giustizia vibonese Andrea Mantella che ha confessato di aver accompagnato i sicari sul luogo dell’omicidio guidando di persona l’auto servita prima per aspettare la vittima predestinata e poi per freddarla. Insieme a Francesco Fortuna, Andrea Mantella ha indicato nel suo ex braccio-destro, Francesco Scrugli, l’altro autore materiale dell’agguato, quest'ultimo poi ucciso a Vibo Marina nel marzo 2012 nella guerra di mafia fra il clan dei Piscopisani ed i Patania di Stefanaconi.
La vittima. Domenico Di Leo, detto “Micu i Catalanu”, era ritenuto dagli inquirenti un componente dello stesso clan Bonavota con il ruolo di “braccio armato”. Entrato in contrasto con i figli del defunto boss Vincenzo Bonavota, è stato attinto da diversi colpi d’arma (Kalashnikov e fucile a pompa), tanto che sul posto sono stati rinvenuti i bossoli di oltre 45 colpi. Il delitto, secondo le indagini, sarebbe maturato al culmine di contrasti sulle modalità di gestione dell’area industriale del comune di Maierato.
Le prove. Al di là di diverse intercettazioni e del racconto dei collaboratori di giustizia Francesco Michienzi, Loredana Patania, Raffaele Moscato e Andrea Mantella, l’elemento di prova più forte a carico di Francesco Fortuna, secondo i carabinieri della Compagnia di Vibo Valentia e la Dda di Catanzaro, è di carattere tecnico- scientifico: l’individuazione di due profili genotipici riconducibili a soggetti di sesso maschile che hanno avuto un “ruolo attivo” nella commissione del grave fatto di sangue, perché le relative tracce sono state rinvenute nei guanti in lattice utilizzati. In particolare sarebbero le tracce di dna rinvenute su quattro guanti in lattice a “inchiodare” Francesco Fortuna. Le analisi avrebbero consentito di isolare un dna che, comparato con il profilo genotipo dell’indagato, avrebbe dato “completa sovrapponibilità”.