Un cilindro metallico di 20 centimetri e largo 12,5: due chili e mezzo di polvere pirica, chiuso alle estremità con due piastre di metallo e un sistema d’innesco composto da un ricevitore radiocomandato a cui era collegato un detonatore. L’ordigno che il 9 aprile a Limbadi ha fatto saltare in aria la Ford Fiesta che transitava in località Cervulara, uccidendo Matteo Vinci e ferendo gravemente suo padre Francesco, ancora ricoverato al centro grandi ustioni di Palermo, potrebbe essere stato proprio così.


Un ordigno, in pratica, simile a quello recuperato dalla Squadra mobile di Vibo Valentia nel febbraio 2013, che – per come sentenziato in via definitiva dalla Cassazione – Pantaleone Mancuso alias Scarpuni, consegnò a Rinaldo Loielo e Filippo Pagano affinché facessero saltare in aria il killer del clan dei Piscopisani, poi pentitosi, Raffaele Moscato.


Avevano pianificato un attentato simile a quello nel quale rimase gravemente ferito in località Savini di Sorianello, il 26 settembre 2017, Nicola Ciconte. Considerato vicino proprio ai Loielo: la sua auto saltò in aria ma sopravvisse miracolosamente.


Come dire: gli attentati in stile libanese, a queste latitudini, non sono una novità. Le forze dell’ordine lo sanno e, dopo l’autobomba del 9 aprile aumentano la pressione. Significativo l’ultimo sequestro a Nicotera Marina: formule d’affiliazione alla ‘ndrangheta, armi, munizioni volontà e perfino giubbotti antiproiettile, di cui uno perforato, sequestrati a Domenico e Salvatore Piccolo, 26 e 19 anni, ovvero i figli di Roberto Piccolo, considerato uno degli uomini d’azione più pericolosi del clan Mancuso. Equipaggiamento per tempi di guerra.

 

 

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