Quanti ne dovranno ancora morire nella baraccopoli di San Ferdinando prima che quella incrostazione di Medioevo venga raschiata via dalla Calabria? Dopo l’ennesima tragedia che ha visto un ragazzo senegalese di appena 28 anni bruciare vivo tra le fiamme della sua baracca, la domanda a questo punto è drammaticamente quantitativa. Quanti ancora? Perché nella coscienza di questo Paese c’è sicuramente un numero oltre il quale nemmeno il governo più cinico può andare.

 

Accadde così, ad esempio, a Marcinelle, in Belgio, quando l’8 agosto del 1956, in una miniera di carbone, morirono 262 persone, di cui 136 immigrati italiani, quasi tutti calabresi. Sino a quel giorno, la legge belga imponeva che, in caso d’incidente, il lavoro nelle miniere si potesse fermare solo se si fossero verificati almeno cinque decessi nella stessa giornata. Cinque. Se anche fossero morte 4 persone bisognava andare avanti, continuare a scavare a un chilometro di profondità sotto terra. In cunicoli larghi anche solo 30 centimetri strisciavano i calabresi, che andavano in Belgio perché con l’Italia c’era un vero e proprio accordo commerciale basato sul baratto: 200 chili al giorno di carbone per ogni italiano di robusta costituzione che fosse andato a lavorare, ammalarsi e forse morire nelle miniere, perché i belgi quel lavoro lì proprio non lo volevano fare.
La pietà era questione di numeri, ed essendo un’altra epoca erano numeri molto alti. Ma dopo Marcinelle la misura fu colma anche per i parametri degli anni ’50 e gli impianti estrattivi cominciarono a chiudere.

 

A quanto pare tre incendi in pochi mesi, con un migrante morto il primo dicembre, il gambiano Surawa Jaiteh, uno stanotte, il senegalese Ba Moussa, e un altro ancora ammazzato a fucilate a giugno, il maliano Soumayla Sacko, non sono ancora abbastanza. Ma si commetterebbe un enorme errore di calcolo se si pensasse che il computo debba essere fatto solo con i cadaveri.
Perché nella baraccopoli di San Ferdinando non muoiono solo le persone, ma periscono tutti i giorni anche la dignità e la civiltà di un Paese.
Quel grumo di disperazione, sporcizia e degrado che punteggia la Piana di Gioia è una vergogna nazionale che va cancellata. Lo dicono tutti. Da destra a sinistra, non c’è un politico che sia uno che non si dica straconvinto di questo. L’hanno detto Renzi, Minniti, Fico e una lunga teoria di parlamentari che puntualmente fanno tappa qui dopo le tragedie. L’ultimo in ordine di tempo è il ministro dell’Interno Matteo Salvini, che - dopo quanto accaduto questa notta - lo ha ribadito: «Sgombereremo la baraccopoli di San Ferdinando. L’avevamo promesso e lo faremo».

 

Intanto, però, la baraccopoli è ancora lì a bruciare vite e pietà, offrendo il giorno dopo le stesse identiche immagini di macerie e masserizie fumanti, con i migranti che si aggirano come fantasmi (nella foto un frame del video girato ieri sera) raccontando ai cronisti di un’esistenza impossibile.
Le fondamenta di quelle “case” di cartone, tavole di legno e plastica sono poggiate sulla perversa economia agricola della Piana, che ha bisogno di lavoratori stagionali per la raccolta di olive, pomodori e arance. Una domanda di mano d’opera che negli anni ha alimentato la crescita di vere e proprie favelas, che a loro volta hanno generato intolleranza e diffidenza, perché nessuno può sentirsi tranquillo quando ha una bomba sociale che gli ticchetta vicino casa.

 

Nel 2010, dopo alcuni scellerati episodi di razzismo, con alcuni sconosciuti che spararono diversi colpi con un’arma ad aria compressa su tre stranieri di ritorno dai campi, scoppiò l’inferno. I migranti marciarono su Rosarno, danneggiando auto e negozi, scatenando la reazione dei residenti. Alla fine si contarono decine e decine di feriti, tra extracomunitari, cittadini e forze di polizia. Dopo quell’assordante campanello d’allarme le cose per un po’ migliorarono, con lo Stato che prese coscienza delle condizioni disumane in cui si viveva nei campi della Piana. Poi, lentamente, tutto tornò come e peggio di prima. E tornarono anche le promesse. Vedremo, faremo.
Ora c’è un altro morto da rispedire nella sua patria, c’è un’altra macchia che allarga la vergogna nazionale di un Paese incapace di chiudere le sue “miniere”, in cui si continua a morire non per duecento chili di carbone al giorno, ma per molto, molto meno.


Enrico De Girolamo

 

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