«Nella massoneria abbiamo “uomini”… Io me ne sono andato quando mi sono accorto che il pesce puzzava dalla testa». Significativo che a dirlo sia uno ’ndranghetista. E che ’ndranghetista: Giuseppe Barbaro, 83 anni, considerato esponente di rango della locale di Platì, condannato in primo grado a 12 anni di reclusione. È un’intercettazione richiamata nelle 1781 pagine attraverso le quali il Tribunale di Locri presieduto dal giudice Fulvio Accursio ha motivato la sentenza emessa all’epilogo del maxiprocesso Mandamento jonico: pronunciata il 22 giugno, le motivazioni sono state depositate appena il 17 dicembre.

Da Reale ai giorni nostri

La sorgente è l’inchiesta Reale, che consentì alla Direzione distrettuale antimafia reggina di far luce sul blasone di Giuseppe Pelle, erede di fatto del defunto mammasantissima Antonio “Gambazza”. Mandamento jonico, invece, è l’estuario, che ricostruito l’insieme di figure, altri capimafia e accoliti, colletti bianchi e comparse, orbitanti nell’impero criminale guidato dal padrino di Bovalino: 62 condannati, 102 gli assolti. La microspia sistemata nella casa del capo-mandamento, in appena 55 giorni, ovvero quelli compresi tra il 25 febbraio ed il 21 aprile 2010, restituiscono intercettazioni la cui eco giunge fino ad oggi.

Due giorni alle Europee

È il 26 marzo 2010: il boss ha visite. Assieme al figlio Antonio (condannato a 14 anni e 8 mesi), riceve tre “uomini d’onore”: lo zio, Giuseppe Barbaro, quindi Vincenzo Pedullà e Domenico Santanna, entrambi considerati appartenenti alla locale di Bianco. Cinque mafiosi, in pratica, che si riunivano nei due giorni precedenti le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo, previste appunto per il 28 ed il 29 marzo.  «Se non sono venuti cinquanta, parola d’onore… Cinquanta, non uno, cinquanta!», così Pedullà. Ma don Peppe Pelle e lo zio concordavano: non potevano proprio aiutare tutti. Bisognava selezionare i candidati sui quali investire e, quindi, la chiave per non investire, era non disperdere voti.

Il disegno di legge Lazzati

Nella conversazione emerge la capacità di lettura degli eventi da parte dello stesso Pelle, contrariamente ad altri uomini di ‘ndrangheta che «non riuscivano a mettersi d'accordo per dettare la linea ed imporre ai politici il da farsi». Pelle, tra le altre cose, stigmatizzava gli effetti che il disegno di legge Lazzati - licenziato da Montecitorio il 24 febbraio precedente e definitivamente approvato il 13 ottobre successivo a quella intercettazione - avrebbe avuto sulla capacità dei mafiosi di incidere sulle competizioni elettorali, di fatto impedendo «ai soggetti legati alla ’ndrangheta e ai sottoposti alla sorveglianza speciale – sintetizza la sentenza di Mandamento Jonico – di fare propaganda elettorale». «Non ci possono tagliare la testa», borbotta Barbaro, che proprio in quel contesto tira fuori quella frase sulla sua pregressa appartenenza massonica.

Chi o cosa è «la testa»?

Un’intercettazione che conferma come le porte dei templi massonici, in Calabria, fossero da tempo state varcate anche dai mafiosi e che lascia aperti diversi interrogativi. L’anziano zio Peppe Barbaro, cosa intendeva con quelle parole? Che significa «Io me ne sono andato quando mi sono accorto che il pesce puzzava dalla testa»? Possibile che, almeno fino ad allora, la massoneria avesse una “testa” capace di urticare anche gli uomini d’onore di Platì?

Giudici e massomafia

Eppure, nella visione ’ndranghetista, l’approccio massonico resta comunque funzionale. Emerge dal resto degli atti processuali. Lo stesso Pedullà spiega come la fratellanza dettata da quel tipo di obbedienza consentisse di condizionare anche la giustizia, assorbendo anche magistrati con i quali gli affiliati massoni interagiscono: «Quello va e si siede… Sempre con giudici il giorno… Gli dicono pane pane per voi… per me per altri… e a noi… ci inculano sempre». Sintetizzando, secondo l’uomo d’onore di Bianco alla fine i mafiosi fuori dai circuiti massonici sono quelli vulnerabili alle aggressioni giudiziarie, mentre quelli con una doppia affiliazione sarebbero stati in grado di giocare con più «mazzi di carte».

Il solco di Gratteri

Dicerie? Pensieri in libertà tra ’ndranghetisti? Molto di più, secondo gli inquirenti reggini, i quali concepirono il filone che dall’indagine Reale ha condotto a Mandamento Jonico sin da quando Nicola Gratteri era procuratore aggiunto di Reggio Calabria. Oggi a Catanzaro, Gratteri, grazie diverse altre indagini, comprese quelle trasmesse per competenza a Salerno, di quelle emergenze investigative ha avuto solo conferme.