Le motivazioni della sentenza del processo per l’omicidio dell’educatore carcerario inseriscono il delitto nel contesto dei rapporti tra le cosche e gli apparati dello Stato. Le dichiarazioni del pentito Foschini: «Avevano paura che quegli accordi venissero svelati. Vennero a Corsico dalla Calabria per dare l'ok al delitto»
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«Non era un corrotto, è morto perché non si è voluto corrompere». Vittorio Foschini è il pentito che ha raccontato ai pm di Milano e Reggio Calabria il contesto in cui sarebbe maturato il delitto di Umberto Mormile, educatore del carcere di Opera ucciso dalla ’ndrangheta nelle campagne di Carpiano, nel Milanese. Foschini era anche uno dei due imputati nel processo che, a 34 anni dai fatti, ha provato a illuminare i lati bui di una storia che per i giudici può essere spiegata oggi alla luce di una tesi finora ritenuta alternativa. Nelle motivazioni della sentenza – che ha condannato a 7 anni lo stesso Foschini e l’altro collaboratore di giustizia Salvatore Pace – i magistrati considerano «concretamente prospettabile» che il delitto sia nato in uno scenario di rapporti tra ’Ndrangheta e servizi segreti che Mormile avrebbe intuito lasciandolo intendere a Domenico Papalia in carcere.
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Secondo Foschini sarebbe bastata una frase appena («non sono dei Servizi») per mandare in fibrillazione le cosche e avviare una sorta di trattativa tra pezzi deviati dello Stato e il gotha dei clan calabresi: prima un tentativo di corrompere l’operatore carcerario («Offrigli trenta milioni»), seguito dal rifiuto di Mormile; poi la sentenza: «Questo bisogna ammazzarlo».
Il pentito racconta una serie di riunioni a cui avrebbero partecipato alcuni tra i più importanti esponenti della ’ndrangheta: vengono citati Franco Coco Trovato, Antonio Papalia, Domenico Paviglianiti, Carmine e Giuseppe De Stefano.
Sarebbe stato lo stesso Antonio Papalia a spiegare perché l’educatore di Opera andava eliminato: «Si frapponeva tra la ’Ndrangheta e i servizi segreti con cui Papalia aveva un collegamento diretto (“andava a Roma per incontrare due dei Servizi”), rifiutando il denaro offertogli per la sua “compiacenza”, affermando “io non sono dei Servizi”». L’allusione agli 007 è fatale: «Questa è una testa dura - avrebbe riferito Papalia a Foschini -. Basta, bisogna ammazzarlo».
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Il pentito: «Mormile era diventato un grosso problema per i Papalia e i Barbaro»
Il pentito racconta ancora che prima dell’omicidio «bisognava parlare con chi di dovere e cioè con i Servizi, vista l’allusione che era stata fatta e visto che non si doveva sospettare di loro, cioè dei Papalia. Ne seguì che Antonio Papalia, come ci disse, parlò con i Servizi che, dando il nulla osta all’omicidio si raccomandarono di rivendicarlo con una ben precisa sigla terroristica che loro stessi indicarono». È così che nascerebbe la telefonata con cui la Falange Armata rivendica il delitto commesso dalla ’Ndrangheta.
Quel «non sono dei Servizi» pronunciato da Mormile è un «grosso problema» per i clan. È sempre Foschini a utilizzare l’espressione in un verbale citato nella sentenza. L’intuizione dell’educatore carcerario «era fonte di grande preoccupazione non sono per gli stessi Papalia, ma anche per i servizi segreti e per la famiglia Barbaro (di Platì, ndr). Anche questi ultimi, infatti, avevano rapporti con i Servizi ed erano coinvolti nell’accordo di cui già ho riferito per cui da un lato i Barbaro, i Papalia e D’Agostino si sarebbero impegnati a non fare più sequestri in Calabria, e in cambio i Servizi li avrebbero agevolati o comunque “protetti” per altri aspetti, a esempio quello dei latitanti». «Nessuno sapeva» come Mormile fosse venuto a sapere di queste relazioni, di sicuro la circostanza «costituiva un pericolo per tutti». Il collaboratore di giustizia va oltre e riferisce che anche i Barbaro si sarebbero «detti d’accordo sull’eliminazione di Mormile». Di più: «Poco tempo prima dell’omicidio, due o tre giorni prima, un rappresentante della famiglia Barbaro (…) venne apposta dalla Calabria a Corsico per essere informato della decisione di uccidere Mormile. Ricorso anche che in quella occasione Rocco Papalia, che era presente, mi presentò questo Domenico Barbaro come il suo cugino Mico».
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La finta rivendicazione della Falange Armata
Alle 15,40 dell’11 aprile 1990, una voce anonima chiama agli uffici dell’Ansa di Bologna e annuncia: «In relazione a quanto è successo oggi a Milano, vi dico che il terrorismo non è morto. Vogliamo che l’amnistia sia estesa anche ai detenuti politici. Non importa chi sono, ci conoscerete in seguito». La Falange Armata apparirà per la prima volta – in relazione al delitto Mormile – sei mesi dopo, il 27 ottobre. La sua presenza (in effetti come Falange Armata Carceraria) si era già manifestata il 22 maggio 1990 con due telefonate: la prima al Carcere di San Vittore alle 15,06, la seconda al carcere di Opera quattro minuti dopo.
Per Foschini anche questa strategia, condivisa anche da Cosa Nostra, sarebbe il risultato dell’accordo tra i servizi deviati e i Papalia. Un modo per allontanare le indagini dalla ’Ndrangheta e dai rapporti con gli 007 che Mormile aveva intuito, ipotizzato per la prima volta dalla Dda di Reggio Calabria nell’inchiesta ’Ndrangheta stragista.
Da «tesi alternativa», questa ricostruzione è diventata «concretamente prospettabile». Il patto tra 007 infedeli e clan della Locride sarebbe nato all’epoca dei sequestri di persona e sarebbe andato avanti per coprire le cosche calabresi: un accordo che avrebbe poi consentito loro di crescere e diventare padrone anche in Lombardia. Altro passaggio chiave per raccontare la nascita della nuova ’Ndrangheta.