Le acquisizioni negli atti dell’inchiesta Royale della Dda meneghina. Il ruolo di Agostino Cappellaccio, presunto terminale economico della cosca, le «ottime» prospettive di guadagno e il freno del lockdown. Per i pentiti il giovane rampollo della cosca di Gioia Tauro è «un habitué della vita notturna» nel capoluogo lombardo
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Per i magistrati della Dda di Milano, Girolamo “Mommino” Piromalli è un «esponente di assoluto spicco» di uno dei casati storici della ’Ndrangheta. La condanna rimediata (e già scontata) nel processo Provvidenza per tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso è uno dei tasselli del curriculum criminale tracciato nell’inchiesta Royale della Guardia di finanza. Gli altri si incastrano in Calabria e sono due ordinanze di custodia cautelare con contestazioni che riguardano (anche) l’«infiltrazione della cosca nel settore commerciale in Calabria». In una di queste inchieste firmate dall’antimafia di Reggio Calabria emergerebbe «anche uno stretto legame» tra il giovane (44 anni) rampollo della famiglia della Piana di Gioia Tauro «e tale Agostino Cappellaccio» che si sarebbe prestato «all’intestazione fittizia» di un lido a Gioia Tauro.
Neppure il nome di Cappellaccio è nuovo alle cronache: 39 anni, pure lui originario di Gioia Tauro, l’imprenditore compare nei verbali del pentito Domenico Ficarra. Ficarra è il collaboratore che ha rivelato – nel processo Nuova narcos europea – un piano delle ’ndrine per uccidere il magistrato Roberto Di Palma. Dopo una vita tra casinò e Ferrari a noleggio, “Corona” (questo il soprannome di Ficarra) ha scelto di raccontare le sue verità ai pm della Direzione distrettuale antimafia di Milano. Descrive Mommino Piromalli come un «habitué dei locali della movida» meneghina e Cappellaccio come un «soggetto legato a doppio filo alla cosca Piromalli». Da Cappellaccio avrebbe saputo direttamente, durante un incontro casuale su un volo da Lamezia Terme «che aveva preso in gestione un ristorante a MIlano, per conto e nell’interesse di Girolamo Piromalli».
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Legami che partono dalla Calabria e approdano nel profondo Nord. Gli investigatori lo scoprono monitorando il Garage Royale, dove Piromalli e Cappellaccio si incrociano con Angelino Giacobbe, figlio di Salvatore, legato da decenni alla famiglia di ’Ndrangheta egemone nella Piana di Gioia Tauro. Dalla frequentazione di quel garage, in cui vengono prelevate auto di lusso per le tante trasferte milanesi, si snoda l’indagine che porta gli inquirenti a ipotizzare che il gruppo dei Piromalli «avesse acquisito il controllo di fatto di numerose attività commerciali milanesi, in particolare operanti nel lucroso mercato della “movida” meneghina, e della ristorazione». La Dda elenca i locali che Cappellaccio, tra il 2018 e il 2021, avrebbe acquisito «sempre sotto la direzione e il coordinamento di Girolamo Piromalli». Si tratta del Dom Cafè (con insegna Corso Como 5); del bar-sala giochi Vizio Italiano, in via Carlo Espinasse; dei ristoranti La Scarpetta (in via Giuseppe Parini), Un mare di sfizi (via Galvano Fiamma) e Cor Italian Restaurant, in via Galileo Galiei.
Il Dom Cafè, gestito di fatto da Cappellaccio, finisce al centro di una contesa fatta di passaggi di società da un prestanome all’altro e minacce per un debito da recuperare. Inizialmente, la ditta che lo gestisce viene intestata a una donna albanese incensurata. Per i problemi di un vecchio socio, però, arriva un’interdittiva antimafia che fa saltare i piani dell’imprenditore vicino i Piromalli. Cappellaccio ci ha rimesso dei soldi che ha intenzione di riottenere. Inizia una lunga caccia al denaro: il primo obiettivo è un kosovaro, marito dell’intestataria e reale gestore del locale. L’uomo, però, non riesce a restituire il denaro: prima si nega, poi viene arrestato. Si intromette un italiano, Carmelo Testa, in contatto a sua volta con la famiglia Giacobbe: rileva il locale e inizia a fare affari. La rabbia di Cappellaccio monta e Testa diventa il suo nuovo obiettivo per riprendersi i 20mila euro investiti nell’attività. Interviene anche Mommino Piromalli che fa leva sul peso del proprio cognome per convincere il nuovo proprietario a pagare. Testa prova a negarsi, sostiene che il bar non abbia un grosso giro d’affari ma la cosca scopre che guadagna da 3 a 4mila euro al giorno e, per di più, è in corso una trattativa per venderlo. È quello che succede: il Dom Cafè viene ceduto a un 27enne cinese alla cifra di quasi 300mila euro. Sfilare un affare di mano a un Piromalli ha, però, i suoi costi: il debito di Testa viene portato d’ufficio da 20 a 50mila euro e il pressing nei suoi confronti diventa più insistente. Per il gip è un caso di scuola di tentata estorsione aggravata dalle modalità mafiose: la ’ndrangheta è a Milano per fare affari e mettersi in mezzo significa correre seri pericoli.
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In via Giuseppe Parini (ri)nasce invece il ristorante La Scarpetta. Cappellaccio lo rileva per 35mila euro dal vecchio proprietario che si trova in difficoltà economiche. Cambia l’insegna e affida a suo fratello la gestione: il locale è in una posizione centrale, tra Porta Nuova e Porta Garibaldi, le prospettive di guadagno «ottime».
«L’importanza dell’operazione, legata alla evidente potenzialità dell’investimento, era – scrivono i magistrati antimafia – tale dall’essere suggellata dall’interessamento diretto di Girolamo Piromalli». È lui che tra il 4 e l’8 febbraio 2020 «in tre diverse occasioni» compare personalmente nel ristorante «a svolgere evidenti sopralluoghi, a portare - con ogni verosimiglianza - il denaro contante con cui finanziare l’operazione (sopraggiungendo munito di valigetta di pelle) e a incontrare i suoi emissari sul territorio lombardo». Il tentativo subisce uno stop: il proprietario del locale aveva già chiesto lo sfratto al vecchio gestore moroso. Cappellaccio non riesce a farlo desistere e, peraltro, nel corso della trattativa sul mondo si abbattono la pandemia e il conseguente lockdown. I movimenti di Cappellaccio intorno al locale riprenderanno nel mese di ottobre ma, probabilmente, senza esito: quando i pm chiedono l’esecuzione delle misure cautelari per l’inchiesta Royale il ristorante è chiuso, con saracinesca abbassata e privo di insegna.
La storia di Cor Italian Restaurant – anche in questo caso un ristorante in zona centrale – presenta tratti simili: si parte dal solito intervento di Cappellaccio per acquisire la società. Questa volta il proprietario è una compagine con sede sociale a Budapest, in una strada (Szent Istvan Korut, in italiano corso Santo Stefano) in cui spesso si incrociano gli affari di personaggi in odore di ’ndrangheta: è il fulcro di una delle vicende di presunto riciclaggio legate al clan Bonavota di Sant’Onofrio. In questo caso la società ungherese lascia il passo a Cappellaccio, che inizia a frequentare il locale assieme a suo fratello. Gli scontri tra i vecchi soci, tuttavia, complicano l’operazione. E il finale è nuovamente un flop: il 10 giugno 2021, il Tribunale di Milano dichiara il fallimento della società che gestisce il Cor.