I contrasti con le ’ndrine di Platì occupano un capitolo importante nelle prime dichiarazioni del broker globale della cocaina Vincenzo Pasquino, depositate nel processo Eureka, in corso davanti al Tribunale di Locri. Il narcotrafficante collabora con la Dda di Reggio Calabria dal 7 maggio scorso: nei suoi racconti c’è la cifra di un business che macina miliardi ma conosce anche intoppi dovuti ai controlli delle forze dell’ordine e della magistratura. Pasquino parla di uno di questi scontri: si riferisce a 180 chilogrammi di cocaina che i calabresi avrebbero rifiutato di pagare perché «dissero che la merce non era di buona qualità». Per recuperare la perdita di quel carico, fornitori e acquirenti raggiungono un accordo per un successivo traffico di 100 chili di droga ma la vicenda lascia strascichi pesanti nel rapporto tra Sudamerica e Platì.

Leggi anche

Lo stupore di Morabito: «Con i platioti ha trafficato tonnellate di cocaina»

«Ho parlato di questa vicenda – dice ancora Pasquino ai magistrati antimafia – nel carcere di Brasilia con Rocco Morabito (…) Rocco Morabito era stupito per l’atteggiamento dei platioti che con lui si erano sempre comportati bene, avendogli (Morabito) spedito con successo tonnellate di cocaina». Morabito, l’imprendibile Tamunga originario di Africo, non riesce a spiegarsi l’atteggiamento dei suoi storici soci nel narcotraffico.

In Brasile non ne vogliono più sapere. Un narcotrafficante il cui nome resta omissato «aveva perso totalmente la fiducia nei platioti e quindi mi ha chiesto di rivolgermi ad altre persone in Calabria per l’uscita della cocaina dal porto di Gioia Tauro e per la successiva vendita».

La scelta dei nuovi acquirenti avviene a Caulonia: «in un bar sotto i portici» c’è il primo contatto con gli emissari del clan Nirta di San Luca. Ci sono da importare 200 chili di coca in arrivo da Rio de Janeiro. Le parti raggiungono un accordo e, spiega ancora il pentito, «io mi recai in Brasile per fare da garante». Pasquino parte da Zurigo per San Paolo: «Qui mi vengono a prendere dei brasiliani che collaboravano con noi (…) con un elicottero e mi portarono a Playa Grande». In Brasile, il narcotrafficante scopre che c’è un problema: uno dei referenti (omissato) «mi disse che non voleva più fare affari con i Nirta, avendo invece massima fiducia nei Pelle “Gambazza” e nei Mammoliti». Le parole di Pasquino modificano la narrazione consolidata: anche la storica fiducia dei sudamericani nei calabresi può incrinarsi.

Leggi anche

Pasquino: «I Nirta volevano investire in un carico»

C’è un’altra novità nei racconti del neo collaboratore di giustizia: i Nirta avrebbero avuto un atteggiamento diverso alle altre cosche coinvolte nei traffici. «Tramite un’organizzazione di cinesi – spiega Pasquino – mi fecero avere 140mila euro perché volevano investire anche loro in un carico e non volevano limitarsi a vendere la cocaina dei brasiliani». Il rapporto con i Nirta (e con il nuovo approccio) viene inaugurato nel settembre 2017 ma del carico su cui il clan investe 140mila euro non c’è traccia almeno fino al gennaio 2018. Pasquino si muove per sbloccare l’affare: «Arrivato in Brasile, organizzammo l’invio di 50 chilogrammi che occultammo nella chiglia delle navi con dei sub. Tuttavia il carico venne sequestrato a Santos dalla Polizia federale nel gennaio 2018». I Nirta incolpano un uomo il cui nome resta coperto da omissis «di essere stato imprudente, avendo appreso che i sub avevano usato dei borsoni arancioni troppo vistosi». I rapporti tra il clan di San Luca e i fornitori sudamericani si chiudono così, in maniera tempestosa.

Pasquino e il contatto con il narcotrafficante albanese

Nel racconto di Pasquino compaiono anche nuovi player internazionali del narcotraffico. È lui a mettere in contatto Sebastiano Giampaolo, presunto broker coinvolto nel processo Eureka, con un narcotrafficante albanese: «Si sono incontrati a San Paolo (per cambiare i soldi da euro a reais) il giorno prima che io venissi arrestato nel maggio 2021». Anche il nome dell’albanese è coperto da omissis. Di sicuro non si tratta di una figura di secondo piano. Lo dicono i numeri di uno degli affari di cui Pasquino parla con gli inquirenti: «Per un lavoro di 300 chilogrammi misi in contatto “Cetto” con l’albanese, cosa di cui Giampaolo era a conoscenza. Dopo che fui arrestato, Sebastiano Giampaolo ha rintracciato il doleiro (cambiavalute, ndr) da cui l’albanese aveva cambiato i soldi e, tramite questi, è risalito al contatto del suddetto albanese. A questo punto, Giampaolo ha contattato “Cetto” e si è accordato con lui per fare delle importazioni, escludendo me». Il narcotrafficante ha contatti stretti con gli albanesi e teme di essere scavalcato: cerca «un contatto per vendere la loro cocaina a Roma», business molto redditizio che non è disposto a condividere con i suoi soci calabresi.