«Di qua non ve ne andate… Cancella o ti spacco la faccia…». E altro. E altro ancora. Correva il maggio del 2017. La troupe di Presadiretta s’inerpicava fino a San Luca («il cuore della ‘ndrangheta», sostengono Nicola Gratteri e Antonio Nicaso, mentre «la testa sta a Platì»). Assieme all’inviato Danilo Procaccianti e al videomaker Fabrizio Lazzaretti, la giornalista di Repubblica Alessia Candito.

 

I giornalisti realizzavano le immagini in paese, ripresa la marcia venivano raggiunti da una vettura. Un giovane li minacciava. Avrebbe perfino tentato di prendere loro la videocamera e i telefonini con cui i giornalisti intendevano allertare i carabinieri. Sarebbe stato identificato poco dopo: Antonio Callipari, 25 anni. Appena un anno dopo, da uccel di bosco perché scampato alla retata “Ignoto 23” della Direzione distrettuale antimafia di Milano, l’avrebbero arrestato i carabinieri: per lui l’accusa di essere un narcotrafficante legato a doppio  al clan Nirta di San Luca.

Per le minacce ai giornalisti, il Tribunale di Locri, l’ha riconosciuto colpevole e condannato a tredici anni di reclusione.

 

«Noi stavamo solo facendo il nostro lavoro – commenta alla redazione di LaC Tv, Danilo Procaccianti – Anzi, avevamo appena finito la nostra giornata. È incredibile che questi signori intendano addirittura controllare chi entra e chi esce dal paese. Non è così, non può funzionare così e questa sentenza ne è la prova».

 

«Noi, mille e mille volte – spiega Alessia Candito - ci siamo ritrovati davanti a qualcuno che si sentiva in diritto di affermare in maniera violenza “qui non giri”, “qui non chiedi”, “qui non”. “Qui non” però non esiste e questa sentenza ne è la prova».

 

È una sentenza significativa, quella del Tribunale di Locri. Un significativo precedente in Paese nel quale tanti, troppi, sono i giornalisti sovraesposti e minacciati, la cui condizione sovente sfugge, paradossalmente, all’attenzione degli stessi media e, quindi, dell’opinione pubblica.

 

Nel Paese dei giornalisti sotto scorta, solo alcuni dei quali noti al grandi pubblico, c’è chi invece preferisce mantenere un basso profilo e restare lontano dai riflettori, per “dare notizie” e non “essere notizia”.  È a questa moltitudine di giornalisti che nel silenzio dell’umiltà svolgono il proprio lavoro correndo seri rischi per la loro incolumità e che talvolta vengono trascinati in Tribunale per cause temerarie e pretestuose, che l’inviato di Report e la giornalista di Repubblica rivolgono il loro messaggio.

 

«Non siamo degli eroi – dice Danilo Procaccianti - Ci sono centinaia di colleghi giornalisti che ogni giorno fanno il loro lavoro subendo minacce e intimidazioni. È a loro che dobbiamo stare vicini perché sono loro che possono cambiare veramente le cose».

 

«Credo sia arrivato il momento per noi giornalisti che lavoriamo su questo territorio complicato – chiosa Alessia Candito – di iniziare a fare rete e di prendere posizione contro questi abusi, queste violenze, queste mutilazioni della democrazia».

 

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