«Sebbene i capi storici si trovassero in regime detentivo e condannati in via definitiva all'ergastolo, la cosca Gallico continuava ad operare con metodo mafioso a Palmi. Grazie al contributo prestato dalle vecchie e dalle nuove leve». Sono i giudici della Corte di Cassazione a scriverlo, nelle quasi 500 pagine delle motivazioni della sentenza con cui sono andate definitive gran parte delle condanne inferte ad una delle 'ndrine più sanguinarie della Piana di Gioia Tauro.

 

Si tratta del troncone ordinario del processo scaturito dalla maxi inchiesta “Cosa mia” che nell'ottobre scorso ha visto gli ermellini condannare all'ergastolo Domenico Gallico, suo fratello Giuseppe, l'anziana mare Lucia Giuseppa Morgante e poi Salvatore Morgante, Carmine Demetrio Santaiti ed Antonio Cilona. L'indagine, curata dai pm Roberto Di Palma e Giovanni Musarò, da un lato ha svelato la maxi-estorsione alle ditte impegnate nel lavori del quinto macrolotto della Salerno-Reggio Calabria, e dall'altro ha ricostruito ruoli e dinamiche delle cosche Gallico di Palmi e Bruzzise di Seminara, impegnati per anni in una feroce faida.

 

Un guerra mafiosa in cui il ruolo dei Gallico non si è svolto «solo per ragioni di parentela”- scrive la Suprema Corte ma- è stata espressione di una precisa strategia dovuta alla comunanza e coincidenza con le altre fazioni ostili ai Bruzzise che hanno finito per operare come un unico schieramento». L'inchiesta "Cosa mia" è passata alla storia non solo per quella maxi-estorsione, ma anche per gli omicidi, vecchi e nuovi, ricatti, asservimento di imprenditori e altri gravi reati, tutti accertati e definitivi grazie al sigilli della Suprema Corte.