«C’era il buio totale subito dopo il delitto. Scovare quelle immagini non è stato per niente facile, ma lavorando giorno e notte siamo riusciti a trovare il bandolo della matassa». Ha il volto stanco, provato da una notte intera di lavoro, il capo della Squadra mobile di Reggio Calabria, Francesco Rattà. E tuttavia i suoi sforzi e quelli dei suoi ragazzi resteranno impressi nei volumi di tecnica di polizia giudiziaria. Non è da escludere, infatti, che il fascicolo relativo all’inchiesta “De Bello Gallico” sarà confezionato e spedito presto alle scuole di polizia come indagine-tipo da farsi in casi come questo. Sì, perché il lavoro svolto dagli uomini della Squadra mobile di Reggio Calabria, guidati da Francesco Rattà, sotto il costante coordinamento del questore Raffaele Grassi, rappresenta un vera e propria perla investigativa, venuta fuori grazie al lavoro certosino di due sostituti procuratori che stanno facendo un lavoro enorme nel circondario cittadino: Walter Ignazitto e Diego Capece Minutolo.

 

Il buio dopo l’omicidio

C’era poco, infatti, da poter valorizzare nelle ore immediatamente successive al delitto di Fortunata Fortugno, da tutti conosciuta come Donatella. Lei di mestiere faceva la sarta, sia la sua famiglia che quella del marito erano del tutto lontane da ambienti di criminalità. Anzi, chi li conosce parla di persone semplici e perbene. Ma su quella Tuareg nel torrente Gallico, nella maledetta sera del 16 marzo scorso, Donatella era lì perché in compagnia di un uomo, il vero obiettivo del killer.

 

Il profilo della persona ferita

Demetrio Logiudice, infatti, come ampiamente emerso nel corso di questi mesi, è persona nota alle cronache, con un ruolo non di secondo piano nel panorama criminale di Reggio Calabria.  Meglio conosciuto come “Mimmo U boi”, è ritenuto dagli inquirenti un elemento di spicco della locale cosca operante nella zona di Condera e molto vicina alla consorteria mafiosa dei Tegano, operativa ad Archi. Logiudice in passato era stato coinvolto nell’inchiesta “Eremo” e per lui era stata applicata anche la sorveglianza speciale. Gli archivi giudiziari lo indicano anche come persona molto vicina a boss di primo piano della ‘ndrangheta di Reggio Calabria, come Mario Audino, reggente dell’omonimo clan e freddato nel 2003, a pochi giorni dalla sua uscita dal carcere, in un agguato che ha rischiato seriamente di aprire nuove fratture in seno alle cosche cittadine. Ma amico di Logiudice era anche un altro ‘ndranghetista emergente come Paolo Schimizzi, uomo di punta del clan Tegano, scomparso per un caso di lupara bianca nel 2008 ed il cui corpo non è stato mai ritrovato.

 

La telecamera della svolta

Proprio da qui, da questo dato, sono partiti gli inquirenti per tentare di imprimere una svolta alle indagini. Scartata quasi subito la pista sentimentale, poiché nulla emergeva da intercettazioni ed approfondimenti, i poliziotti della sezione omicidi hanno concentrato gli sforzi sull’unico elemento che avrebbe potuto aprire una breccia nel buio di quella notte sul greto del torrente Gallico: le immagini delle telecamere di videosorveglianza, sia pubbliche che private. È stata una vera e propria pesca a strascico: tutte le registrazioni sono state prelevate, circa una settantina. Centinaia le ore di filmati da analizzare in ogni singolo frame. Poi, ecco che, da una piccola camera posta a poche decine di metri dal luogo dell’agguato, viene fuori un indizio fondamentale: si nota una transitare la Tuareg con a bordo Logiudice e la Fortugno. Dopo circa 55 minuti sopraggiunge un’Audi A3 Sportback. Trascorrono pochi minuti e la Tuareg viene vista sfrecciare a tutta velocità verso l’ospedale. È la corsa disperata di Logiudice che, invano, tenta di salvare la vita alla donna che è con lui. Non ci riuscirà. Ma la fuga dell’uomo è, di fatto, anche una reazione, quale istinto di sopravvivenza, forse perché cosciente che il vero obiettivo del sicario è lui e non la povera donna. Pochissimi istanti dopo, però, quella stessa videocamera mostra l’Audi tornare indietro. È questo l’elemento da cui tutto prende avvio: identificare il numero di targa della vettura e scoprire chi ne sia l’utilizzatore. L’incrocio dei dati porta ad una prima sconcertante scoperta: l’unico a fare uso dell’Audi è Paolo Chindemi, giovane di 28 anni, figlio di Pasquale Chindemi, l’ausiliario del traffico ucciso un mese prima a Gallico. L’intuizione si fa concreta.

 

La pista ‘ndranghetistica

Come scrivemmo già nelle ore immediatamente successive al delitto, infatti, c’era già una pista che portava all’escalation di violenza e omicidi nel territorio di Gallico. Ed inserimmo proprio il delitto Chindemi fra quelli che potessero trovare un collegamento anche solo temporale con quello della Fortugno. Una deduzione logica che non è sfuggita ovviamente neppure ai poliziotti, ancor più nel momento in cui si è avuta la certezza che a guidare era proprio Paolo Chindemi.

 

Volevano “pizziare” Logiudice

Inizia così una vorticosa ed immane attività investigativa che porta a piazzare cimici anche nei posti più impensabili. Una conversazione ambientale fra gli indagati fa riferimento al momento del delitto: i presenti dicono che Fortunata Fortugno si stava voltando per guardare indietro, quando è stata colpita. Aggiungono che la donna è morta per colpa dell’uomo con cui era in auto, al quale ha sostanzialmente salvato la vita, facendogli da scudo. In un’altra conversazione ambientale, Paolo Chindemi si spinge sino a riferire di aver commesso un omicidio. Mentre sono gli investigatori, nel corso della conferenza stampa, a riferire che in un’altra intercettazione, si fa riferimento alla volontà di “pizziare” (termine dialettale che significa “combinare molto male”) Logiudice. È evidente a tutti allora come l’obiettivo del killer fosse l’uomo e non certo la povera Fortunata, colpevole solo di trovarsi in compagnia della persona sbagliata nel momento meno indicato.

 

Il nuovo gruppo criminale e la zona “calda”

Ma a corroborare ulteriormente gli elementi acquisiti, ci sono altre conversazioni che raccontano in modo evidente di un nuovo gruppo criminale dedito alla consumazione di delitti contro la persona e il patrimonio. Un gruppo spietato del quale, secondo le indagini, fanno parte, oltre a Paolo Chindemi, anche Mario Chindemi ed Ettore Corrado Bilardi con il ruolo apicale, e Santo Pellegrino. Erano quelli che volevano affermare il loro potere sul quartiere di Gallico, dopo il vuoto lasciato dai vecchi capi mafia, a seguito di arresti ed inchieste. Proprio in questo contesto, emerge come lo stesso gruppo si sia reso responsabile di un danneggiamento contro le saracinesche del garage di un ex amministratore pubblico. «Erano pronti a colpire ancora», afferma il questore Grassi. Non si facevano remore ad utilizzare il grilletto in modo disinvolto. Ed in effetti sono diverse le armi trovate nel corso delle perquisizioni, così come un congegno elettronico utile a poter azionare un’esplosione a distanza.

 

Chi è Ettore Bilardi

Come detto, fra i fermati figura Ettore Bilardi. Questi è un soggetto pregiudicato dall’elevato spessore criminale. Già condannato per omicidio, è il genero del boss della ‘ndrangheta don Mico Tripodo, ucciso nel 1977, dentro il carcere di Poggioreale su mandato della cosca De Stefano. Ma Bilardi è anche cognato di Venanzio Tripodo, genero di Sebastiano Romeo, patriarca della storica famiglia degli “Stacchi” di San Luca. Proprio questi legami criminali incrociati hanno fatto propendere gli investigatori verso l’idea della volontà di creare un sodalizio criminale in grado di acquisire il potere mafioso nella zona. Un prestigio da lasciare intatto anche dopo l’eliminazione di Pasquale Chindemi.

Che collegamento c’è?

A questo punto, è d’obbligo domandarsi se e quale diretto collegamento vi sia fra l’omicidio Chindemi e quello costato la vita alla Fortugno. Se si tratti di una risposta del gruppo a quel delitto e in che termini i Chindemi pensassero che Logiudice avesse delle responsabilità. Perché un fatto è certo: Logiudice doveva ritenersi al sicuro, per scegliere di andare nel torrente Gallico ed avere un momento di tranquillità con la donna che era assieme a lui. Se avesse pensato, anche solo per un momento, di poter correre dei rischi, probabilmente non ci sarebbe andato senza precauzioni particolari. O forse, volendo percorrere una via diversa, si è trattato di una tragica sottovalutazione del rischio. Le indagini sul delitto Chindemi, tuttavia, sono affidate ai carabinieri che, ovviamente, incroceranno gli elementi acquisiti da questa inchiesta per far luce anche su quel delitto.

 

Le indagini non si fermano

Inevitabili le domande sugli altri fatti di sangue che hanno interessato il territorio di Gallico nell’ultimo periodo, così come sull’escalation di atti intimidatori. A questi quesiti tanto il procuratore capo Giovanni Bombardieri, quanto il questore Raffaele Grassi hanno risposto in modo netto: ci sono indagini in corso. Ciò significa che l’attività è tutto fuorché terminata. Anzi, c’è da scommettere che proprio l’aver eseguito oggi questi provvedimenti potrà portare in futuro a delineare ulteriormente i contorni di ciò che è accaduto a Gallico negli ultimi anni.

Di certo c’è che questo gruppo disarticolato era pronto ad entrare in azione e colpire ancora, uccidendo. Da qui l’urgenza di emettere i fermi e dare respiro ad un territorio asfissiato dalla presenza di questi personaggi. Nella speranza che tutti, ora, depongano le armi.

 

La convalida del fermo

Oggi intanto, il gip di Reggio Calabria ha convalidato i fermi delle persone finite in cella, concordando, di fatto, con l'impostazione accusatoria della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, anche circa il pericolo di fuga e la gravità indiziaria. Del resto, come anticipato, i magistrati erano stati chiari circa la possibilità che gli indagati potessero fuggire via o tornare o colpire nel breve volgere di qualche tempo. Una conferma che dà sostanza all'inchiesta della Squadra mobile reggina. 

Consolato Minniti