Enzo Porpiglia è reggino e dallo scorso luglio è anche direttore delle operazioni nei Territori occupati in Palestina. Ha 35 anni ma ha alle spalle già dieci anni di gestione delle emergenze nelle zone di conflitto
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Apre spazi umanitari dove l'umanità regredisce fino al punto che uccidere indiscriminatamente è una inquietante e inaccettabile normalità che mette in conto vittime innocenti, come sono tutti i bambini in ogni conflitto. Dunque fa del dialogo il suo strumento per aprire varchi e cercare di portare aiuto alle popolazioni civili costrette a vivere contesti di guerra, di violenze e atrocità.
Lui è Vincenzo Porpiglia, 35 anni, nato e cresciuto a Scilla nel reggino, orgogliosamente calabrese, coordinatore dell'Emergenze per Medici senza Frontiere e dallo scorso luglio direttore delle operazioni nei Territori occupati in Palestina e capo missione a Gaza e in Cisgiordania. Non è un sanitario ma è colui che dialoga per tessere relazioni e garantire la presenza di ospedali e l'accesso alle cure in posti il più possibile vicino al fronte. È colui che assume decisioni dalle quali dipendono la vita delle persone da curare dopo un bombardamento e la sicurezza degli operatori sanitari da inviare sul posto dopo un attacco missilistico.
La cifra del suo orgoglio di appartenenza è dato dalla fierezza con cui annovera il dialetto calabrese tra le sue lingue madri, lui che dialoga adesso con israeliani e palestinesi e che fino a che ieri lo ha fatto con russi e ucraini. «Conosco e vedo ogni giorno cosa le guerre generino nell'umanità. Ogni volta che torno in Calabria, e cerco di farlo ogni volta che posso, ritrovo pace».
Impegnato a costruire una pace che, ci tiene a dirlo, non è un'entità astratta e che spesso, come nel caso di MsF, passa anche da posizioni ferme e solide su quanto deve essere fatto per garantire sempre e comunque un sicuro accesso alle cure e possibilità di sopravvivenza laddove la morte non è un fatto naturale o accidentale ma è la diretta e nota conseguenza di un'azione sempre scellerata e ingiustificabile. «Ogni guerra è sempre persa già in partenza. lo dimostra quello che vediamo ogni giorno negli ospedali. Medici senza Frontiere lo denuncia dal mezzo secolo. È l'atto più disumano che possa esistere. La pace, dal canto suo, deve essere conquistata non semplicemente da pacifisti ma anche con idee molto chiare e con posizioni molto solide e ferme».
Molto riservato, determinato, appassionato e motivato, Enzo Porpiglia, solo 35 anni e con oltre un decennio di esperienze importanti alle spalle, è rientrato solo per qualche giorno da Gerusalemme dove adesso risiede. Lo ha fatto per un appuntamento irrinunciabile, quello con gli affetti che ha riabbracciato prima della fine di questo 2024.
La sua esperienza umanitaria in contesti legati a conflitti è iniziata dopo la laurea in Gestione dell'Emergenze presso l'università di Perugia. La prima missione è in Sudan presso il centro di cardiochirurgia di Emergency. Aveva 26 anni e non si è più fermato. La Repubblica Centro Africana, in preparazione di un’epidemia di Ebola, in Sierra Leone, ancora Repubblica Centro Africana e poi con Medici Senza Frontiere in Burundi e dopo in Medio Oriente in Iraq e in Europa, in Ucraina nel 2022 dove si ferma due anni prima di essere destinato nuovamente in Medio Oriente ma questa volta nei Territori occupati della Palestina, dopo il tragico di Hamas del 7 ottobre 2023. Lo scorso luglio arriva a Gerusalemme per svolgere il ruolo di capo missione in Cisgiordania e a Gaza dove l'ultima volta è stato per un mese tra agosto e settembre.Un percorso inatteso che, missione dopo missione, diventa per Enzo Porpiglia una scelta sempre più consapevole. Sul futuro non si sbilancia e, per sua candida ammissione, non fa troppi piani. Attraverso l’intervista che abbiamo realizzata, ecco la sua testimonianza.
Quali sono stati la formazione e il percorso che l'hanno condotta ad assumere l'impegno umanitario facendone una professione e una missione?
«La mia formazione affonda le sue radici in Calabria e non solo per le mie origini e la mia crescita. Io vengo da Melia, una frazione del comune di Scilla. Tutto è nato qui dove sono andato a scuola, spostandomi fino a Bagnara per frequentare il liceo scientifico e poi a Foligno per studiare nell'ambito del corso di laurea in Coordinamento delle attività di Protezione civile presso l'università di Perugia. Ho maturato in Calabria la mia attitudine a voler portare aiuto in situazioni di difficoltà. La Calabria è territorio fragile dove in passato i terremoti sono stati particolarmente rovinosi e tragici. Ho sempre pensato che qui fossero necessarie professionalità utili alla Protezione civile per prevenire determinate emergenze, dettate dalla vulnerabilità sismica e geologica del territorio, e per rispondere alle conseguenze in caso di eventi calamitosi naturali. Dunque, studiare come poter gestire queste situazioni di emergenza causate da calamità e catastrofi naturali è stato quello che mi ha mosso a scegliere un corso di laurea così specifico. La prospettiva era quella di tornare in Calabria per proseguire qui la mia vita. Quando ho compilato la mia candidatura per Emergency, poco dopo la mia laurea non avrei pensato che quell'esperienza sarebbe stata la prima di una lunga serie nella gestione di situazioni post conflitto e poi di conflitto. Non si pensa mai troppo in là quando capitano occasioni simili. Le si vive appunto come esperienze, forse anche delimitate nel tempo. Oggi posso dire di non fare troppi piani e che, al momento, è qui con Medici senza Frontiere che continuo a vedermi impegnato».
Da gestione delle emergenze in caso di calamità alla gestione di contesti segnati da guerre e conflitti armati. Come e quando è cambiata la rotta del suo cammino?
«Il mio impegno umanitario è iniziato nel 2016 in Sudan in una situazione di post conflitto nell'ospedale di cardiochirurgia di Emergency dove ho avuto modo di esprimere e di mettere in pratica per la prima volta quello che avevo imparato in Italia. Le missioni si sono poi susseguite anche in aree di conflitto, dove c'era bisogno di cure mediche. Fin da subito è nata la passione per tutto quello che riguardava la gestione di ospedali e l'urgenza che sentivo e sento di portale cure mediche dove è necessario. Un cambio di rotta che non è nato da un giorno all’altro. È qualcosa che non ti aspetti di fare per troppo tempo. Pensi di farlo soltanto per un periodo e poi di poter tornare, di trovare l’occasione giusta per poter tornare. Invece capisci che c’è così tanto da fare, che si può imparare molto in determinati luoghi. Oggi per me è molto importante continuare ad andare a vedere comunità che hanno bisogno».
Lei non è un sanitario eppure la sua attività è strettamente connessa a quella sanitaria. Perché?
«Portare cure mediche, allestire un ospedale e portare personale sanitario e in un luogo in conflitto è l’ultimo miglio di un’emergenza. Serve un enorme sforzo di coordinamento tra parti ma anche logistico e di rifornimenti. Occorrono dei passi che sono non soltanto tecnici ma anche relazionali rispetto all’autorità del luogo. Così si creano quegli spazi umanitari che Medici Senza Frontiere apre da 50 anni, per creare le condizioni in virtù delle quali persone che non hanno nulla a che fare con un conflitto entrino in aree molto difficili al solo scopo di portare cure mediche. Per farlo bisogna posizionarsi neutralmente, bisogna farlo spiegando cosa facciamo e chi siamo e questo necessita di molto tempo. Questo è quello che faccio io, fondamentalmente, creare spazio umanitari da un lato, dialogando con le parti, e dall’altra parte supportare la macchina organizzativa di Medici senza Frontiere nel portare cure e aiuti dove è necessario. Ci siamo dati delle regole non scritte perché bisogna parlare con tutti, non bisogna mai smettere di dialogare. Bisogna farlo per molte ragioni. Gli interlocutori possono essere persone moderate, con le quali si riesce in qualche modo a isolare gli estremismi, ma non è sempre così. Ci sono stati diversi contesti in cui è stato difficile aprire spazi umanitari. Luoghi in cui, per la grande volatilità, gli interlocutori cambiavano spesso, rendendo necessario adattarsi. Ancora oggi, posso dire, che è molto difficile farlo a Gaza, farlo nei territori occupati della Palestina. È difficilissimo perché ci sono una violenza estrema e due parti che sono profondamente diverse, che hanno posizioni talmente lontane da rendere difficilissimo spiegare che è necessario tenere in conto gli attori umanitari ed è fondamentale poter portare cure mediche. Al momento credo che Gaza sia lo spazio umanitario più difficile da gestire».
Lei assume anche decisioni importanti in contesti naturalmente critici. Quali sono i suoi punti di riferimento?
«Ci sono state e ci sono molte circostanze critiche in cui bisogna prendere decisioni cruciali. Credo che anche chi stia in Calabria tutti i giorni assuma delle scelte molto difficili. Il livello di responsabilità e di peso delle scelte, secondo me, può essere uguale in Calabria come sulla striscia di Gaza. Quello di cui ci si deve preoccupare molto spesso è quanto impatti quella scelta sulle persone, sui colleghi, sul personale sanitario che non ha la visione della sicurezza globale dell’ospedale. Questo credo sia il peso maggiore che percepisco».
Ci racconti i suoi primi in Emergency e accanto a Gino Strada.
«Ho iniziato in Sudan e in Africa mi sono fermato per cinque anni tra Repubblica Centro Africana e Sierra Leone con Emergency e poi, con Medici senza Frontiere, in Burundi con Medici senza Frontiere. In Sudan nel 2016 avevo presto servizio presso il centro cardiochirurgico dove Gino Strada era solito fare interventi. Ho avuto, così, la fortuna di poter lavorare con lui a stretto contatto. Avevo 26 anni e la consapevolezza che ho maturato dal contatto con lui è stata subito quella del diritto a una sanità gratuita e dell'impegno necessario per rendere concreto e accessibile questo diritto a tutti, soprattutto in costanza di guerre. Chiunque lavora nell’ambito sanitario deve farlo per altruismo e non per danaro o profitto. Questo occorre ricordarlo e praticarlo. Di Gino ricordo anche i silenzi quando non c'era nulla da dire ma da fare. Quando era arrivato in Calabria per un riconoscimento, lo avevo potuto portarlo a conoscere Scilla. Fu per me molto importante».
L'Africa, il Medio Oriente e l'Ucraina, prima di arrivare a Gaza. Tante guerre e tutte viste da vicino. Il dialogo tra le parti è stato sempre possibile?
«Dopo il Sudan, l'esperienza presso l'ospedale pediatrica nella repubblica Centroafricana, sono stato inviato in Sierra Leone nell'ospedale di chirurgia e traumatologia di Freetown, sempre con Emergency. Poi di nuovo nella repubblica Centroafricana in un breve periodo e in collaborazione con la Cooperazione internazionale del ministero degli Esteri italiano. Nel 2020 è iniziata la mia attività con Medici senza Frontiere. Sono rimasto in Africa, in Burundi, e poi la prima missione in Medio Oriente, in Iraq e in Europa, in Ucraina a seguito dell'invasione russa. Sono stato proprio nel Donbass e qui ho avuto la mia prima esperienza di missione con un conflitto di grosse dimensione in corso. Medici senza Frontiere ha scelto, ancora una volta, intenzionalmente di fare qualcosa per le popolazioni vittime del conflitto nelle zone che sono più vicine al fronte, quelle che hanno più bisogno. Dal febbraio 2022 abbiamo lavorato per cercare di portare cure mediche con le ambulanze e con il lavoro all’interno di ospedali. Credo che, al momento, siano una decina di migliaia le persone che sono state curate da Medici Senza Frontiere in Ucraina. Qui il dialogo è stato difficilissimo con i russi. È stato complicato cercare di proteggere gli ospedali nelle zone in conflitto, quindi cercare di spiegare che gli ospedali non sono degli obiettivi. È stato difficile anche spiegare nei territori ucraini all’esercito l’importanza di mantenere gli ospedali, quali luoghi sicuri. Era necessario fare questo in quel momento, oltre che prestare concretamente le cure».
Lei viene inviato a Gaza dopo il 7 ottobre 2023. Che situazione ha trovato?
«Medici senza Frontiere seguiva Gaza già dal 1987 per la grande crisi umanitaria purtroppo non nuova. La chiamata è arrivata in occasione di un picco di bisogni umanitari. Nel luglio scorso mi sono trasferito a Gerusalemme per operare in Cisgiordania e a Gaza dove, in particolare, non esistono luoghi sicuri. Le linee rosse invalicabili sono state superate. Il conflitto ha superato ogni limite. Nulla e nessuno escono o entrano senza l’autorizzazione del Governo israeliano. La situazione non è stata mai semplice ma il 7 ottobre 2023 ha generato una rottura definitiva dei rapporti tra le autorità palestinesi e quelle israeliane. Lì Medici senza Frontiere ha due ospedali da campo e 12 centri di salute primaria. Lavoriamo in due ospedali principali nell’area umanitaria. Abbiamo un grosso sistema di distribuzione di acqua potabile per la popolazione dell’area centrale di Gaza e a nord. Siamo in tanti e sono necessarie molte risorse per fare quello che facciamo. Siamo circa 45 espatriati a Gaza e collaboriamo con 800 colleghi palestinesi. In Cisgiordania lavoriamo da nord a sud, a Jenin, Tulkarem, Nablus e in varie aree e anche li portiamo cure di salute primaria con cliniche mobili e supporto psicologico alla popolazione».
A Gaza non ci sono luoghi sicuri. Come operate per mantenere gli spazi umanitari? Come mediate?
«Abbiamo il privilegio di poter dialogare con i rappresentanti delle autorità Palestinesi e delle istituzioni Israeliane. Le conversazioni sono difficili. Necessario è tenere conto del fatto che anche la comunità israeliana ha sofferto, subendo un attacco molto grave. Per la società israeliana è stato un grandissimo trauma quanto avvenuto il 7 ottobre 2023. Pur riconoscendo questo, Medici Senza Frontiere ha condannato e condanna la sproporzione della violenza perpetrata in risposta dall’esercito israeliano. Violenza e atrocità che hanno generato una crisi umanitaria senza precedenti. Dunque è importante per noi comunicare agli israeliani quanta sofferenza stiano causando e che non è mai giustificabile quello che è stato fatto a Gaza nell’ultimo anno e anche prima dell’ultimo anno. Lo abbiamo denunciato anche nei nostri rapporti e attraverso le linee di comunicazione e gli incontri bilaterali. I canali sono aperti. Nonostante le complete differenze di posizione, riusciamo a trasmettere un messaggio. Quanto questo si trasformi in azioni concrete è difficile da dire ma siamo presenti all’interno della striscia di Gaza e siamo una delle poche organizzazioni che può entrare, che può stare in maniera permanente. Abbiamo accesso, attraverso diversi canali con grande difficoltà, ma riusciamo a starci. A Gaza non esiste un luogo sicuro, un luogo in cui sei protetto. Non c’è un singolo angolo di quel territorio in cui non ci sia il rischio che possa succedere qualcosa di molto grave. Medici senza Frontiere lavora in un'area estesa per 42 km², l’equivalente di un piccolo centro storico italiano, dove vivono 1.300.000 persone. Bombardare all’interno di quest'area vuol dire mettere in conto di colpire chiunque, indiscriminatamente. L'Ucraina invece è un paese grande e quindi ci sono dei luoghi sicuri. La proporzione del conflitto è completamente diversa. Lì il conflitto si concentra principalmente sulla linea del fronte, dunque i pattern degli attacchi sono più leggibili».
Come si convive con la consapevolezza di una guerra che non risparmia i bambini?
«Sono adulti che decidono di spezzare con violenza le loro gite. Non una carestia o una pandemia ma una decisione. Tutte le vite hanno un grande valore però quando si tratta di bambini, questo ci tocca profondamente. Lo abbiamo denunciato in un rapporto di recente, lo abbiamo detto a voce alta. Siamo davvero molto preoccupati di questa involuzione umana. Dobbiamo urgentemente interrogarci se adulti in guerra accettano l'idea di uccidere anche dei bambini. Quanto può essere disumano ritrovarsi a contare le vittime in base al peso dei resti trovati in un palazzo bombardato. Se una società adulta ed evoluta accetta questo …».
Cosa sono la paura e il pericolo per lei?
«Paura e pericolo non coincidono quasi mai. La paura è un sentimento importante in molte situazioni, ma non è quello guida, credo da nessuna parte. È piuttosto specifica e soggettiva. Il pericolo è un qualcosa di cui bisogna essere consapevoli. Bisogna sapere quanto si sia esposti per poter accettare il rischio. Dunque è la consapevolezza il dato da cui partire per scegliere se accettare il rischio o meno. Spesso mi chiedono se e quando io abbia avuto paura di morire. Rispondo sempre che credo di non essere l’unico che fa questo mestiere e che lavora in zone pericolose. Potrei fare l'esempio di moltissimi luoghi che non sono in guerra e che sono pericolosi. Noi siamo educati a ragionare in termini di esposizione al rischio che oggettivamente può essere prolungata nel tempo».
Come sta segnando la sua crescita personale, questa esperienza?
«Credo attraverso la prospettiva con cui guardare alla vita. Siamo dei privilegiati. Ci si dovrebbe lamentare meno rispetto a quello che non si ha e quindi mi io sento sempre molto fortunato».
Al suo ritorno a Gaza, che situazione la attende?
«Cosa succederà adesso a Gaza dipende dai negoziati che sono in corso adesso per il cessate il fuoco. Un cessate il fuoco fondamentale, da noi richiesto da quando è iniziato questo conflitto. Occorre che sia immediato perché serve che gli aiuti umanitari entrino all’interno di Gaza. Adesso non stanno entrando ed è una strategia. Urge, pertanto, questo cessate il fuoco, a quanto pare vicino. Speriamo che le due parti, Hamas e il Governo israeliano, accettino le condizioni consentendo di dare sollievo a questo lungo inverno in cui sta vivendo la popolazione di Gaza».
Lontano da casa da tanto tempo e per quasi tutto l’anno, cosa la rende sempre così innamorato della Calabria?
«Quando mi viene chiesto dove vivo, rispondo subito in Calabria anche se il mio lavoro mi porta a stare all'estero per 11 mesi all'anno. La mia casa è sempre la Calabria, Melia di Scilla. Qui sono le mia radici, la mia famiglia, i miei amici. La Calabria è il posto in cui sono nato e in cui torno ogni volta, sempre, da dovunque io mi trovi nel mondo. In futuro, non so cosa succederà. So che oggi che continuo a fare quello che faccio che lo farò quanto più possibile. So anche che tornerò sempre in Calabria, dove c’è pure tanto da fare e c’è tanta volontà di farlo. Quindi mi auguro di poter essere utile un giorno anche qui. Adesso credo che continuerò a lavorare con Medici senza Frontiere poi si vedrà ma vivo senza troppi piani».
Cosa ti manca di più della Calabria?
«Ogni volta che torno guardo il mare, anche per poco e anche se in tempesta perchè è sempre molto bello. Credo che la Calabria conservi uno stato mentale pacifico. Mi piace il fatto che i calabresi siano tranquilli e leggeri, che abbiano il piacere nel fare poche cose ma semplici. Per me è rilassante stare qui. Anche se è più facile essere connessi, mi mancano tanto gli affetti, gli amici, le persone e quell'ironia che i calabresi hanno. Sì, questa mi manca moltissimo».
Cos'è dal suo osservatorio così diretto la Guerra e cosa è la Pace?
«Il risultato delle guerra è sempre lo stesso. È sempre una sconfitta. Il risultato finale è quello che Medici senza Frontiere vede negli ospedali. Vivere e lavorare in un ospedale vicino all’area del fronte è identico ovunque. Lavoriamo in simultanea in molti conflitti. Siamo in Siria, siamo in Libano. Quello che risulta alla fine dentro un ospedale è sempre e comunque una perdita d’umanità ovvero persone ferite persone che aldilà del loro schieramento hanno bisogno di cure quindi, secondo me è assolutamente la stessa cosa. Ogni volta che comincia una guerra l’umanità ha già perso. È una sconfitta da ogni punto di vista per i morti, per gli amputati, per i bambini che non sopravvivono. È sempre una sconfitta già in principio. I risultati militari, quello che si ottengono successivamente interessano solo a coloro che in guerra le persone, anche troppo giovani, le hanno mandate.La pace va conquistata. Ritengo siano necessarie tenacia e caparbietà per raggiungere certi obiettivi. Non vorrei che si pensasse che le organizzazioni come Medici senza Frontiere promuovano semplicisticamente la pace. Siamo consapevoli della necessità di essere in certe circostanze duri e fermi per riuscire a mettere le posizioni in chiaro. Quindi non crediamo in maniera naif di essere pacifisti. Crediamo, piuttosto, che occorra essere molto tenaci nel cercare di raggiungere gli obiettivi. Credo che la Calabria, in certe circostanze abbia proprio queste caratteristiche».