Padroni del business della morte, difeso dalla concorrenza anche a colpi di minacce e intimidazioni. Padroni del quartiere, con a disposizione un esercito senza neanche prendersi il disturbo di reclutarlo. Nel loro feudo, il Gebbione, quartiere della periferia sud di Reggio Calabria, agli uomini dei Labate non serve neanche chiedere, perché spontaneamente ci si presenta per rendere omaggio. E offrire informazioni.

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Le manovre dei Labate

Così ha pensato bene di fare Antonia Messina, dipendente comunale raggiunta oggi da una sospensione di un anno dal servizio. Venuta a sapere dell’interdittiva antimafia che stava per essere recapitata alla Croce Granata di Francesco Toscano, è stata lei ad informare del provvedimento in arrivo il padre, Pietro Toscano, vero dominus dell’agenzia di onoranze funebri a cui per nessun motivo voleva rinunciare. I Labate già immaginavano che sarebbe successo, Francesco era finito dietro le sbarre per il vero e proprio arsenale trovato a casa sua. Ma già lavoravano al piano B. Per loro, bastava trasformare la “Croce granata” in “Croce Amaranto”, cambiarne la sede ed intestarla a Vincenzo Laurendi, figlio di Antonio, lo storico sodale di Pietro Toscano.

Informazioni in regalo

Manovre neanche troppo raffinate. E sarà proprio la soffiata sull’interdittiva in arrivo a farlo comprendere a Toscano. Non era attesa, anzi l’uomo dei Labate quasi si stupisce di quell’informazione che gli viene consegnata in modo spontaneo e gratuito. Non ha neanche rapporti di amicizia o frequentazione con la donna, dalle carte sembra conoscere superficialmente solo il marito e il fratello di lei. Eppure la Messina, appena appreso dell’interdittiva, si precipita da Toscano. Sa che sta commettendo un illecito, per questo – si sottolinea nelle carte - «per evitare che qualcuno potesse vederla, aveva finanche evitato di scendere dalla macchina».

Le soffiate della Messina

A Toscano annuncia il provvedimento in arrivo, «siccome, mi è capitato di scaricare lì e guardare, meglio che lo sai e che ti regoli». E poi lo mette in guardia sulle manovre da fare per l’apertura dell’apparentemente “nuova” ditta per cui era pendente la procedura amministrativa. Il rischio, gli spiega, è «che non te la danno. Perchè è arrivata la cosa di Francesco». Toscano prima confessa candidamente che, pur rimanendo reale dominus, il suo nome non comparirà. Poi, quando lei gli fa notare che «che forse l'hanno collegata lì, vedi che non abbiano fatto collegamenti» lui sbotta.

«Solo io sono il mafioso?»

Parla quasi da perseguitato «Ma dico... e gli altri che fanno? tengono aperti? Devono chiudere tutti allora – si lamenta - cioè io devo chiudere per l'interdittiva antimafia..quindi il mafioso a Reggio sono solo io. I Battaglia.. con Zampaglione ...inc... l'interdittiva antimafia, Solo io ho l'interdittiva antimafia?». E tutti concordano in un coro contro i provvedimenti adottati dalla prefettura per tenere le mani dei clan lontane dalle imprese. «Stanno facendo piazza pulita» dice quasi con sdegno il marito della donna. Poi vanno via, contenti di aver omaggiato il sovrano e dopo essersi persino scusati per il disturbo arrecato.

Le contromisure dei Labate

Toscano si confronta con Laurendi, i due cercano di rendere più opaco il travaso dalla Croce granata alla Croce amaranto, cercano di far sparire le tracce, ma sono preoccupati dal fatto che l’operazione sia di fatto di dominio pubblico. Il socio se la prende con Toscano «”Stanno aprendo Laurendi” gli devi dire tu "ma non siamo noi!”». Ma l’informazione è utile, spiega il gip. I due adottano una serie di cautele aggiuntive. Rifanno l’insegna per cancellare qualsiasi riferimento a Toscano, li cancellano dai mezzi, ristampano i biglietti da visita, cambiano persino numero di telefono. Ma gli investigatori hanno ascoltato e documentato ogni passaggio delle manovre dei tre. Così come delle confidenze della Messina. E nei suoi riguardi, come nei confronti del marito, Demetrio Cassalia, pur non destinatario di misura, è durissimo.

Obiettivo, accreditarsi con il padrone del quartiere

«Non vi è dubbio, in merito, che Antonella Messina e il marito intendessero utilizzare quella notizia per accreditarsi agli occhi di un boss della criminalità organizzata. Non risulta - si legge nelle carte - che vi sia alcun rapporto di parentela o di disinteressata amicizia tra i due coniugi e Pietro Toscano». E a lui Messina e marito di rapportavano «con una inquietante riverenza, scusandosi finanche per il disturbo arrecatogli. Del resto, i due coniugi abitano proprio nella zona controllata dal Toscano, esattamente di fronte a dove questi stava per aprire la ditta "Croce Amaranto"».

Niente altruismo, solo sudditanza al clan e alle sue leggi

Non solo lo hanno avvertito del provvedimento in arrivo, ma lo hanno messo in guardia e gli hanno dato consigli. Soprattutto la Messina, che da dipendente comunale era in grado di accedere ad informazioni che ha messo a disposizione dell’uomo dei Labate. «Tale comportamento dimostra come la stessa, consapevole della caratura mafiosa del Toscano, intendesse operare anche al fine di occultare i beni in questione, sottraendoli all'apprensione dell' Ag, e favorendo così la complessiva organizzazione mafiosa di appartenenza del Toscano». E di certo non si sono esposti – sottolinea il giudice - «per mero spirito altruistico».

Il feudo del Gebbione

Erano coscienti della totale illiceità della manovra, ma «il rischio che correvano i due coniugi doveva ragionevolmente essere compensato dal conseguimento di un corrispondente vantaggio. E ciò non poteva che essere l'occasione di accreditarsi con il boss del loro quartiere, così da beneficiare in seguito della sua autorità in caso di bisogno». E si sono prostrati ai suoi piedi, come questuanti di fronte al signore del feudo.