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C’è stato un gran parlare, nelle ultime settimane, dopo la scarcerazione dell’ex senatore Antonio Caridi. La decisione del Tribunale del Riesame ha provocato fisiologiche reazioni da parte di tutti i suoi sostenitori che hanno inneggiato – comprensibilmente – alla sua integrità ed onestà, prendendosela neppure troppo velatamente con coloro che avrebbero messo in cella una persona innocente e con quelli colpevoli di averne riportato le accuse. Tuttavia, a leggere le motivazioni con cui il Riesame ha scarcerato l’ex senatore, la sensazione è che i giudici tutto pensino tranne che non vi siano elementi a carico dell’ex assessore regionale. Ed allora proviamo ad analizzare con maggiore accuratezza ciò che il collegio ha scritto, senza fermarsi al mero dato della scarcerazione o dell’asserita mancanza d’indizi volta a dimostrare la partecipazione di Caridi all’associazione mafiosa.
Le accuse della Dda
Facciamo un passo indietro. L’ex senatore finisce all’interno dell’inchiesta “Mammasantissima” che svela, nella ricostruzione della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, l’esistenza di un’associazione mafiosa non più solo nella sua componente di tipo militare, ma anche in una sua parte occulta, dai cosiddetti “invisibili” che hanno un ruolo di direzione strategica nell’assumere le scelte di “politica criminale” della ‘ndrangheta, poi attuate materialmente dalla componente “visibile”. In tale contesto, a Caridi si contesta di far parte a pieno titolo di quest’associazione, dapprima con un ruolo dirigenziale, poi con quello di esecutore del progetto criminale portato avanti da Paolo Romeo e Giorgio De Stefano. L’ex senatore, insomma, sarebbe la longa manus politica degli “invisibili” e per tale ragione inserito a pieno titolo nell’organigramma della stessa. Dopo pochi giorni, dalla prima ordinanza nei suoi riguardi, ne giunge una seconda nell’inchiesta “Alchemia”. Emergono i rapporti di Caridi con la cosca Raso-Gullace – uomini che intendevano “mangiarsi Roma” – ed in particolare Jimmy Giovinazzo, quello che procura voti al politico e che quest’ultimo ritiene una fortuna avere come amico. Fino a qui, in estrema sintesi, l’impostazione accusatoria.
La decisione della Cassazione
C’è da dire, però, che, dopo una conferma in sede cautelare da parte del Riesame, la Corte di Cassazione ha annullato una prima volta il provvedimento d’arresto dell’ex senatore, non ritenendo sufficientemente motivata la decisione dei giudici. Una carenza di elementi che, però, non ha impedito al Riesame, in sede di rinvio, di confermare nuovamente la misura. Per la seconda volta, però, la Cassazione ha detto “no”. Non ci sono elementi per confermare l’assunto accusatorio, il provvedimento va di nuovo esaminato dai giudici. Secondo rinvio e questa volta il Riesame ha mutato opinione. Partendo dalle censure della Suprema Corte ha argomentato accogliendo le tesi degli avvocati Carlo Morace e Valerio Spigarelli.
La riqualificazione in concorso esterno
Innanzitutto, i giudici hanno ritenuto che, per gli elementi emersi, il reato vada riqualificato in concorso esterno in associazione mafiosa. Una scelta che, però, dal punto di vista processuale spetta in via esclusiva alla Procura della Repubblica: sarà solo il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo a poter eventualmente scegliere di mutare il capo d’imputazione e riqualificarlo. Una via che, stando a quanto emerso, non sarà percorsa assolutamente, considerato che la Dda è convinta di andare sino in fondo con la propria prospettazione accusatoria. Sicurezza che deriva anche da un dato processuale ulteriore, il primo ad avere una seppur non definitiva pronuncia giudiziaria: la sentenza emessa dal gup nel troncone abbreviato del procedimento “Gotha” e che ha visto la condanna a 20 anni di reclusione di Giorgio De Stefano che, nella ricostruzione accusatoria, è uno dei principali appartenenti all’associazione. Ma qui siamo soltanto nel campo delle scelte strategiche processuali.
Niente associazione mafiosa
Ma come motivano i giudici del Riesame questa mancanza di elementi utili a suffragare l’ipotesi di una piena appartenenza di Caridi all’associazione mafiosa? Il collegio spiega che «pur ritenendo esistente la componente segreta, dal materiale indiziario non emerge alcun indizio dotato del crisma della serietà atto a dimostrare la partecipazione alla stessa di Caridi». E nonostante due conversazioni intercettate nell’aprile 2002 nello studio dell’avvocato Romeo, queste «non possono ritenersi sufficienti a sostenere la prospettazione accusatoria, poiché da esse non può trarsi la conclusione che Caridi sarebbe stato a tempo indeterminato un esecutore del programma della consorteria criminale». Insomma, per i giudici, tranne quelle due intercettazioni ed un’altra captata nel 2014, quindi 12 anni dopo, concernente la costituzione della città metropolitana, «non vi è traccia di nessun altro contatto tra Romeo e Caridi da cui desumere un nesso fra la carriera politica dell’odierno indagato e la componente riservata facente capo a Romeo». Ed è proprio questa la parte di ordinanza che i supporter dell’ormai ex senatore hanno utilizzato per riaffermare la sua innocenza. Tuttavia, quel che qualcuno ignora è la parte seguente delle pagine vergate dai giudici reggini.
Il concorso esterno
Chi è Antonio Caridi, secondo coloro che ne hanno decretato la scarcerazione? «Dal complesso compendio indiziario analizzato senza dubbio emerge la figura di un politico aduso a concludere accordi di carattere illecito con gli esponenti delle varie consorterie mafiose operanti sul territorio, capace di interfacciarsi con i vari clan dominanti sul territorio, pur di ottenere il proprio tornaconto elettorale». Sì, avete letto bene: si parla di «politico aduso a concludere accordi di carattere illecito». Secondo il Riesame, quindi, non si tratta di un clamoroso errore giudiziario. Non è vero – come qualcuno, mosso da perenne dubbio di persecuzione, scrive con cadenza regolare – che non esista alcun indizio a carico dell’ex senatore. È vero semmai, come gli stessi giudici rimarcano, che «non emerge che il movente autonomo che animava l’imputato si è nel tempo modificato, sì da assumere una nuova significatività e concludenza in termini di affectio societatis, intrecciandosi e confondendosi con la finalità associativa». In altri termini, non c’è prova della sua adesione al progetto criminoso associativo come membro interno. Ed è per questo che per Caridi non si procede ad un giudizio tranciante di mancanza d’indizi di colpevolezza, ma ad una condotta ascrivibile nell’alveo del concorso esterno, dunque un gradino più giù rispetto a quello dell’associazione mafiosa.
Il contributo di Caridi
Finita qui? Nemmeno per idea. Perché i giudici di Riesame affondano il colpo una seconda volta: «Caridi, quale concorrente esterno, in qualità di referente politico, forniva un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo alla ‘ndrangheta unitariamente intesa, poiché, essendo destinatario delle preferenze elettorali degli affiliati e delle preferenze di altri cittadini, fatte confluire da esponenti della cosca, nel corso di varie consultazioni elettorali, si sdebitava, attraverso la strumentalizzazione dei propri incarichi politici. Più nel dettaglio, le singole cosche con le quali il politico si interfacciava sapevano di poter contare su di lui per soddisfare le più svariate necessità ed il Caridi, come visto, si rendeva disponibile ad assumere numerosi lavoratori, ad individuare un medico per l’affiliato latitante, a sbloccare alcuni lavori edili o, ancora, a truccare lavori pubblici». Ogni analisi su quanto asserito dai giudici appare superflua, essendo la ricostruzione particolarmente chiara.
Le ragioni della scarcerazione
Rispetto alle esigenze cautelari, il Riesame spiega un dato abbastanza evidente: le condotte contestate (siamo nel 2010) «sono ormai risalenti nel tempo e vi è traccia di un unico contatto successivo a tale epoca tra l’imputato ed esponenti di cosche di ‘ndrangheta». Il contributo di Caridi, poi, sarebbe stato «specifico» perché «fornito in concomitanza delle competizioni elettorali a cui lo stesso partecipava ed al fine precipuo di ricambiare l’appoggio elettorale ricevuto». Insomma, non vi sono ragioni per rimanere in carcere.
Una libertà riacquistata per l’ex senatore, ma che – contrariamente a come qualche commentatore si ostina a voler far apparire – non si traduce in una “assoluzione preventiva”, così come l’ordinanza nei suoi confronti non doveva tradursi in una condanna a priori. Antonio Caridi, per la legge, è non colpevole fino a sentenza passata in giudicato. E le sentenze le pronunciano i tribunali. In questo caso al termine di una lunghissima istruttoria dibattimentale in corso oggi a Reggio Calabria. E – lo ribadiamo come in passato – è solo lì che si forma la prova vera e propria che potrà portare ad una condanna o ad un’assoluzione. È per questo che ergersi a tifosi di una o dell’altra fazione non rende un buon servizio alla giustizia. Altro è discettare di morale ed etica, di comportamenti opportuni o meno opportuni, di politici senza macchia o meno. In tal caso, ogni personale opinione è rispettabile anche se non condivisibile.
Consolato Minniti
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