Demetrio Quattrone, ingegnere ucciso per mano ancora ignota a Reggio Calabria il 28 settembre 1991, discerneva bene tra chi investiva e chi speculava in quello che era il suo contesto di attività, lo scottante settore degli appalti. La sua visione era (ed è) nitida laddove era (ed è) più torbido. 

«L'imprenditore - scriveva - nasce ed investe perché vede un mercato che esprime domanda nel lungo termine. L'affarista si organizza solo per fare l'affare che ha l'intenzione di concludere. Dall'affare trae il maggior guadagno possibile, non accantona ammortamenti ma investe tutto l'utile in beni permanenti che producono solo reddito a chi li possiede (ovvero immobili)».

Con fermezza e coraggio guardava dentro quell'economia drogata dal cemento e dalla corruzione, gestita dal partito dei “palazzinari” che in riva allo Stretto spadroneggiava, imponendo un processo produttivo appiattito sulle sole logiche di speculazione edilizia, sfruttamento del lavoro e illegalità diffusa. Logiche capaci solo di sottrarre risorse e mai di produrre bene comune.

Aveva soltanto 42 anni, quando fu assassinato da una mano criminale ancora ignota e ancora impunita, lasciando la moglie Domenica e tre figlie Rosa, Antonino e Maria Giovanna che ancora attendono giustizia.

Era il 28 settembre 1991 e l’agguato fu consumato nella frazione reggina di Villa San Giuseppe, vicino a quel mulino di famiglia rinnovato e fatto diventare il suo focolare della sua famiglia, mentre era in auto con l’amico trentenne Nicola Soverino, anche lui rimasto ucciso. Era medico presso la guardia medica di Gallico, periferia nord di Reggio Calabria, Nicola Soverino e aveva appena trascorso la serata a casa dell'amico Demetrio e della sua famiglia.

Nell’estate precedente, il 9 agosto 1991, a Piale tra Campo Calabro e Villa San Giovanni, era appena stato ucciso il magistrato Antonio Scopelliti. Anche quello è ancora un delitto senza colpevoli.

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