Una vecchia fotografia lo ritrae festante, seppur composto. Col sorriso soddisfatto di chi sa di aver messo a segno un gran colpo. Bicchiere di plastica in mano, con di fronte uno dei più capaci investigatori che abbiano setacciato le strade della provincia di Reggio Calabria. Il brindisi è d’obbligo, visto che il risultato è d’eccezione.

È il febbraio 2008, quando un giovane pubblico ministero, arrivato solo da qualche tempo a Reggio Calabria, ma già con una discreta esperienza, ottiene una prima investitura: catturare Pasquale Condello. È il segno inequivocabile che, quel figlio d’arte dalle origini joniche, ha davanti a sé tanta strada da percorrere.

Ora, che il Csm ha designato Giuseppe Lombardo quale procuratore aggiunto di Reggio Calabria, si concretizza un primo traguardo che ritenere appartenga solo a lui, appare assai riduttivo. Una premessa è d’obbligo: tutti i magistrati che hanno concorso alla nomina hanno un altissimo profilo e sarebbero stati egualmente perfetti per un ruolo delicato in un fazzoletto di terra come lo Stretto. La scelta del Csm, però, cela un segnale chiaro ed inequivocabile: il lavoro certosino e silenzioso di quel pm con la scrivania sommersa dai fascicoli, è stato valutato ed apprezzato così come doveva. E credeteci: non era per nulla scontato. Perché la strada che ha condotto Lombardo alla poltrona di procuratore aggiunto è stata tutt’altro che lineare. Non a caso siamo partiti dal ricordo della cattura del “Supremo”. Perché è in quel momento che (ri)prende vita tutto ciò che oggi viene esaminato con grande attenzione nel processo “Gotha”.

Lombardo è sicuramente contento di aver assicurato alla Giustizia uno dei capi incontrastati della ‘ndrangheta. Ma non può fermarsi. Tante, troppe le cointeressenze che vengono fuori dalle carte raccolte durante gli anni delle indagini per arrivare a Condello. Nomi, fatti e circostanze che aprono scenari inesplorati o quasi.

Dopo decenni in cui si parla della pax mafiosa come un momento di fine, si prende a ragionare in maniera assai diversa. Quella pace, siglata col sangue nei primi anni ‘90, non è che l’inizio di un’era nuova. Lombardo comprende che per avere una visione chiara del presente, bisogna andare a ritroso nel tempo. Recuperare gli atti di vecchie indagini che giacciono magari in archivi pieni di polvere. Verbali che nessuno pensa di dover più utilizzare, collaboratori di giustizia ritenuti ormai stantii e con poche conoscenze. Lui no, s’incaponisce a tal punto da proseguire anche in beata solitudine, quando tutto ciò che sta attorno sembra non voler recepire quello storico cambiamento in atto.

Nasce così il processo “Meta”, che qualche investigatore, protagonista assoluto di quella stagione, non esita a definire “Metà”. Il motivo è presto detto: c’è tutto un filone che emerge e che non riesce a decollare. Riguarda i rapporti fra ‘ndrangheta e politica.

Lo abbiamo già detto oltre un anno fa: sono periodi in cui, anche nei corridoi degli ambienti che contano, Lombardo si sente spesso ripetere che quei tasselli che sta mettendo insieme altro non sono che mere coincidenze. Lui, però, decide di non voltarsi dall’altra parte e soprattutto non si arrende anche quando qualcuno prova incautamente a tirarlo dentro a storie torbide di pentiti più o meno falsi.

Ma quando un magistrato è cristallino, non ha nulla da temere perché le condotte sono sotto gli occhi di tutti. Ed allora, anche quella bolla di letame costruita ad arte per delegittimare ed amplificata da qualche giornale, finisce col dissolversi senza lasciare traccia.

È un magistrato che dà fastidio, Giuseppe Lombardo. Magari perché testardo. O forse perché troppo libero. Da interessi trasversali, da commistioni strane, da vecchi e nuovi patti stretti all’ombra d’intrecci inconfessabili. No, lui ha un unico interesse oltre quella stanza al sesto piano del Cedir: la sua famiglia, che nonostante senta il peso dell’assenza per le ore passate sulla scrivania dell’ufficio, non fa mai mancare l’apporto necessario per affrontare i momenti difficili. Come nel marzo 2013, quando, a poche ore dalla scoperta dell’ennesima minaccia di morte, il pm risponde con una citazione suggerita dalla moglie: «Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente». Sono parole di Bertolt Brecht. Una frase che scuote, interroga. Cosa avrà voluto dire Lombardo? Lui tace.

Intanto il suo ufficio sembra sempre più un archivio: i faldoni si sommano tanto sulla scrivania, quanto alle sue spalle. Eppure non sono atti vecchi. Sono i tanti processi, anche piccoli, che il pm deve seguire indistintamente, tanto da portare ad un incontro con i presidenti delle sezioni penali, per concordare le date dei dibattimenti. Un peso eccessivo che rischia di schiacciarlo. Una situazione che altri avevano già vissuto in un passato remoto e ad altre latitudini.

Poi, forse nel momento di massima stanchezza e difficoltà, accade quel che non ti aspetti: l’arrivo di Federico Cafiero de Raho alla guida della Procura di Reggio Calabria, dilaniata da anni di tensioni e scontri fratricidi, interni persino alla stessa magistratura. Sono fatti storici, non più indiscrezioni.

Cafiero raccoglie la sfida e rivolta la Procura come un calzino. Lombardo gli prospetta la sua tesi: da Condello ai De Stefano il passo è breve. Da Reggio Calabria a Milano, passando per Roma, si trovano tutti gli affari più importanti della ‘ndrangheta. Lombardo illustra e Cafiero ascolta, studia e capisce che in quei fascicoli c’è qualcosa di veramente grosso.

Il resto è storia nota. Quella “metà” può finalmente completarsi. Lombardo non è più un magistrato che lavora in solitudine. Ciò significa potersi concentrare sul lavoro più probante, ma essere anche meno esposto al rischio di possibili ritorsioni. Arrivano in sequenza inchieste pesantissime che portano la firma anche di altri magistrati di punta come Stefano Musolino, nonché un nugolo di giovani pronti a sfidare la “Santa”. Perché è lì che punta Lombardo: agli invisibili. Un’entità che molti, anche nella stampa nazionale, non esitano a definire la solita “spectre”. Ed invece arrivano nomi e cognomi. Ci sono anche quelli di insospettabili, di personaggi di alto profilo istituzionale e delle professioni. I confini si allargano dalla Calabria, a Roma, alla Lombardia e poi all’estero.

Per carità, non esistono ancora pronunce dei Tribunali e ciò non può che indurre ad una cautela nel giudizio, ma un dato è inconfutabile: Giuseppe Lombardo, per primo e per molto tempo da solo, ha creduto di poter alzare il tiro e puntare al centro nevralgico del potere mafioso. Non più solo una ‘ndrangheta fatta di uomini pronti a sparare, ma un vero e proprio sistema criminale assai più complesso perché comprendente più mafie e più gruppi di potere, anche di tipo eversivo o semplicemente affaristico. Tutti uniti sotto un’unica bandiera. Quella che probabilmente avrà accolto a mezz’asta la nomina di Giuseppe Lombardo a procuratore aggiunto.

Una notizia, come detto, che ci riguarda tutti da vicino: perché è una piccola vittoria di tutti coloro che hanno sempre creduto nella magistratura come potere da esercitare entro i limiti dettati dalla legge, ma soprattutto con quell’onestà intellettuale – che comprende anche qualche errore in buona fede – di cui Lombardo e tanti altri suoi colleghi, reggini e non, sono portatori sani.

 

E allora buon lavoro al nuovo procuratore aggiunto di Reggio.

 

Consolato Minniti