Il racconto di Giuseppe Bisceglia che durante la pandemia ha sposato la sua Lihi. Ma da allora vivono una situazione kafkiana, tra carte bollate, avvocati e uffici comunali. A farne le spese è anche il loro bambino di due mesi che risulta nato da una mamma single
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Un’odissea dell’assurdo che parte da un amore e finisce nella terra di mezzo delle carte e degli avvocati e del diritto internazionale. Un racconto lungo e intricato il cui finale è ancora da scrivere. È la storia che il regista cosentino Giuseppe Bisceglia fa su Rolling Stone, vittima di un paradosso diplomatico che lo vede incastrato in quella che definisce "violenza burocratica", cominciata quando ha deciso di sposare la sua fidanzata, un’artista di origini israeliane.
Tra permessi e riconoscimenti, tra inghippi formali e tempi lunghissimi (e nel mezzo parcelle di avvocati impegnati a venire a capo della vicenda) tutto parte da un veto che il governo israeliano impone a chi decide di sposarsi fuori dal Paese, con uno straniero (in questo caso italiano) senza rito religioso. Questo costringe Giuseppe e la compagna Lihi a cercare vie alternative e uno Stato in cui sia possibile dirsi di “sì” solo per amore. Questo Stato è Cipro che mette il timbro sulle nozze in una bella giornata di sole. Si sposano senza amici, senza familiari, in diretta Zoom con i parenti costretti a casa dalla pandemia. Sembra un bel finale, solitario ma felice. La storia, purtroppo, non finisce qui. Anzi, diventa ancora più complicata.
Una volta tornati in Italia, per certificare il matrimonio, inizia una trafila infinita fatta di municipi, impiegati con poca voglia, carte su carte da vistare, ripresentare, e nel mezzo appuntamenti che slittano di settimana in settimana, diritti concessi per grazia ricevuta e mai per dovere d'ufficio. Ma non è ancora questo l’acme di una storia che è un labirinto dalle pareti sempre più anguste. Dall’amore tra Giuseppe e Lihi nasce Dante. E lì la strada curva si fa ancora più in salita, con tornanti tanto stretti da non riuscire quasi a evitare l’argine del dirupo. Il bambino non può essere riconosciuto dal papà. Non dallo Stato italiano, non da Israele che pretende la registrazione delle nozze entro l’anno. Tutto diventa una fortezza di burocrazia che non si riesce ad espugnare. Dall’Italia nessuno sa che pesci pigliare e il limbo è l’unico luogo che dà asilo alla famiglia. Dante ha un mese e 19 giorni, per la legge degli uomini non ha un papà, è figlio di una madre single, in Italia è straniero e non ha diritto ad alcuna assistenza sanitaria.
Da Tel Aviv non si fidano, chiedono prove concrete che la relazione tra i due coniugi ma non-coniugi, non sia una facciata. Vanno prodotti chat, email, fotografie, momenti insieme che garantiscano che l'amore sia autentico. Sembra un estratto dal film “Green Card” con Gerard Depardieu e Andie McDowell, solo che nella pellicola i due davvero non si conoscevano prima del matrimonio, mentre tra Giuseppe e Lihi la storia d’amore non solo è vera, lunga e sincera, ma anche resistente agli urti di convenzioni amministrative che metterebbero a dura prova anche la relazione più solida.
Iniziano viaggi tra ambasciate e consolati, tra Roma e Israele. Capitoli di un racconto grottesco che non fa che avvitarsi su sé stesso senza trovare sbocchi, speranze. In tutto questo c’è un bambino, Dante, che ha quasi due mesi e porta il nome di un Poeta che di gironi infernali ne sapeva qualcosa. È così piccolo da non sapere ancora quanto può essere lunga la strada verso la fine di una selva oscura fatta di procedure e visti, per il riconoscimento di un diritto elementare che è quello di esistere.