Maria Chindamo, Barbara Corvi, Simona Napoli, Lea Garofalo, Maria Concetta Cacciola, Giuseppina Pesce, Denise Cosco. Alcune sono state “esemplarmente punite” per essersi sottratte al potere delle famiglie. Altre sono riuscite a cambiare vita scomparendo ufficialmente dal mondo, sotto la protezione dello Stato dopo avere collaborato con la giustizia. Nella quasi totalità dei casi, il dominio sul corpo delle donne si confonde con il dominio sul territorio.

Sono tante le narrazioni sulle donne della ‘ndrangheta divenute conosciute da un grande pubblico negli ultimi anni, alcune addirittura tramite produzioni televisive diffuse a livello mondiale, come la serie “The Good Mothers” (2023). Alla radice di questo fenomeno, l’emergere di nuove narrazioni giornalistiche e di un necessario dibattito sulle politiche di prevenzione e protezione per donne e minori.

Nonostante questi passi, però, l’immaginario collettivo è ancora segnato da un complesso di stereotipi sulle organizzazioni criminali, sulla Calabria e sulle donne stesse: i codici di “onore”, la terra arretrata, omogenea e senza ambienti urbani, le madri in ottica di sacrificio che trovano la forza di cambiare per i figli. Stereotipi dannosi e che devono essere tramutati in storie, dati e informazioni più veritieri e tridimensionali se si vuole camminare verso un cambiamento reale nella comprensione e nel contrasto della violenza maschile in questo contesto.

Questa è la tesi della ricercatrice non strutturata e sociologa Sabrina Garofalo, dottore di ricerca in Politica società e cultura per l’Università della Calabria che, negli ultimi giorni, ha lanciato il libro “Donne, violenza e ’ndrangheta. Metodi, storie e politiche” (Novalogos, 2023). Nel suo più recente lavoro, Garofalo parte dalla necessità di ripercorrere le biografie delle donne nei contesti di ’ndrangheta per decostruire, appunto, quegli stereotipi e per proporre nuovi modelli di sostegno a questi soggetti.

Componente del Centro di Women’s Studies “Milly Villa”, Garofalo si occupa di studi di genere, migrazioni, Mediterraneo, mafie ed antimafia e fa parte dell’Osservatorio regionale sulle infiltrazioni mafiose e l’illegalità in Umbria. In questa intervista rilasciata a LaC News, la sociologa parla del suo sforzo di conoscere e diffondere le storie che portano più profondità alle narrazioni femminili nel contesto di criminalità organizzata.

Ha lavorato per circa cinque anni nella raccolta dei dati. Cosa l'ha spinta a scrivere questo libro?
«La ‘ndrangheta può essere vista come un modello di organizzazione patriarcale, nonostante spesso viene detto il contrario (cioè, che le donne e i bambini “non si toccano”). Il mio obiettivo è stato la necessità di decostruire immaginari che ci impediscono di andare oltre, che limitano la visione delle donne o come vittime, o come boss. In questo contesto, l’esperienza delle donne è l’intersezione del potere maschile, economico e mafioso, sui corpi e sul territorio. Ritornare alle soggettività vuol dire, in questo caso, rompere con “l’imperativo della scelta”. Cioè: alle donne prossime alle organizzazioni mafiose viene sempre chiesto di scegliere – puoi andartene o puoi restare – , ma anche in questa logica si nascondono dinamiche di potere. In realtà, c’è una varietà di percorsi individuali, biografie, di cui bisogna tenere conto. Questo ha delle ricadute sulle politiche pensate per le donne».

Ha dedicato una sezione particolare sulle rappresentazioni mediatiche. Cosa ha notato in questa analisi?
«Quello che emerge è che vediamo spesso donne in 'contesti arretrati', che quando riescono a intraprendere altri percorsi lo fanno da madre, in un costante schiacciare lo stereotipo delle donne solo nella maternità. In alcune narrazioni ci sono ragazze giovanissime che diventano dei capi clan. Inoltre, sembra che tutto il destino della Calabria sia in mano alle donne. Queste visioni contribuiscono a non comprendere la profondità del fenomeno. Soltanto in alcune fiction più recenti emerge ad esempio, il tema della violenza subita dalle donne nelle relazioni familiari, come nella serie 'The Good Mothers'. Nel momento in cui diciamo che queste donne subiscono violenza di genere e violenza mafiosa, cambia la prospettiva. Devono cambiare le politiche anti-violenza e bisogna ridare dignità anche ai corpi e alle vite di queste donne».

Quali conseguenze possono derivare dagli stereotipi?
«Non si può dare per scontato chi sono queste donne e che cosa vogliono. Abbiamo dato sempre per scontato che una donna potesse scegliere di andarsene, di rompere con la famiglia, cambiare identità. Ma cosa c’è dietro una persona che deve cambiare il proprio nome per sopravvivere? Sono percorsi dolorosi, non possiamo pretenderli, perché si rischia la superficialità. E quando chiedono alle donne di denunciare, cosa c’è dietro la denuncia? Queste persone hanno bisogno di accompagnamento nei loro processi di autonomizzazione, di empowerment. Bisogna pensare a loro come cittadine, pensare anche alla dimensione dei diritti. Mettere al centro la loro autodeterminazione».

Nel suo libro, cita l’esempio di Maria Concetta Cacciola, di Rosarno, uccisa nel 2011 dai propri familiari per avere collaborato con la giustizia. Lo Stato ha fallito in casi come questo?
«Non amo parlare del fallimento dello Stato, ma quella storia ha fatto sì che si potesse mettere al centro del tema questioni importanti, come la tutela dei minori. Erano tempi diversi, le cose sono cambiate. In quel caso, quella era l’unica modalità in cui si poteva uscire: lei aveva tradito, quindi 'doveva essere punita', secondo la logica della ‘ndrangheta. Adesso sappiamo che i figli vengono utilizzati come strumenti di ricatto, ma allora non lo sapevamo. Infatti ho introdotto nel libro il concetto di 'femminicidio di ‘ndrangheta', cioè femminicidi in senso stretto, in cui l’uccisione avviene in una situazione di una forte asimmetria di potere nell’ambito intimo. L’organizzazione criminale legittima il fatto, per loro era giusto ucciderla perché aveva tradito, scegliendo di collaborare con la giustizia».

Cos’altro è cambiato da allora?
«C’è stato un cambiamento importante a livello di consapevolezza, dovuto a delle storie che sono andate alla ribalta dell’attenzione pubblica. Se io dico Lea Garofalo, oggi tutti sanno chi è, mentre prima nessuno sapeva. C’è stato anche un cambiamento dei movimenti e delle associazione in questo senso. Ci sono tante forme di impegno non riconosciute come movimenti antimafia, ma che costruiscono percorsi di diritti e di lavoro pulito, per donne e per le periferie. E ciò rappresenta una vera e propria lotta alla ‘ndrangheta, togliendo spazio alla criminalità. C’è stato anche un cambio nella forma di narrare il lavoro investigativo, una vicinanza rispetto alla popolazione. Ci sono pure più strumenti di aiuto alle donne».

Cosa ancora deve migliorare nel ruolo dello Stato quando si parla di donne nei contesti mafiosi?
«In Italia c’è una mancanza normativa. Secondo la legislazione attuale, infatti, una parente o una conoscente di soggetti affiliati a organizzazioni criminali non possono che essere collaboratrici di giustizia o testimoni, non ci sono altre strade. C’è un dibattito intorno alla necessità di cambiare le norme attuali, in modo di permettere l’introduzione di altre possibilità. Ci sono donne, ad esempio, che non sono coinvolte nelle organizzazioni, o che non sono a conoscenza di fatti da denunciare, ma che vogliono cambiare la propria vita. Bisogna pensare a dei percorsi di accompagnamento non imposti dall’alto, ma che tengono conto delle singole soggettività».

Leggi anche