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«Noi abbiamo perso una guerra. Perché? Perché la mafia ad un certo punto ha compreso che la nostra battaglia e il maxi processo sarebbero stati la sua sconfitta. Perché il maxi processo aveva messo in luce che la mafia esisteva. Aveva capito, la mafia, che l'ergastolo per quei vertici che fin ad allora l'avevano fatta franca l'avrebbe messa in ginocchio. E così la mafia iniziò a bussare alle porte di chi prima aveva bussato alle sue porte. E così la mafia iniziò a chiedere il conto ai politici per mettere i bastoni tra le ruote a chi aveva portato avanti il maxiprocesso. E allora, ragazzi, non bussate mai».
Un appello forte quello lanciato dal generale Angiolo Pellegrini ai ragazzi del Liceo classico "Michele Morelli" di Vibo Valentia, nel corso della presentazione del suo libro "Noi, gli uomini di Falcone", ospitata dall'istituto guidato dal dirigente Raffaele Suppa su iniziativa dell'Osservatorio Falcone Borsellino Scopelliti, presieduto da Carlo Mellea.
Edito da "Sperling & Kupfer", il libro - descritto nell'introduzione di Attilio Bolzoni come "il romanzo nero di Palermo" - racconta l'esperienza dell'alto ufficiale oggi in quiescenza dell'Arma dei carabinieri quale capo dell'allora neocostituita Sezione Anticrimine del capoluogo siciliano, negli anni della seconda guerra di mafia. Scritto con grande potenza narrativa, grazie al prezioso contributo del giornalista Francesco Condoluci, «è la storia - si è detto nel corso della presentazione - di tante battaglie vinte ma anche di una guerra persa, una guerra che qualcuno impedì che si vincesse».
La storia «di un sopravvissuto», ha detto il dirigente scolastico Raffaele Suppa. Segnata - ha ribadito la docente Anna Melecrinis - da «speranza e disperazione, successi e sconfitte». «Memorie come queste - ha detto il direttore responsabile di LaC Pietro Comito - devono diventare memoria collettiva e, quindi, identità, perché solo così è possibile sperare di vincere sulle mafie».
Quella di Pellegrini - ha quindi aggiunto il presidente dell'Osservatorio Falcone Borsellino Scopelliti, Carlo Mellea - «è una vita che appartiene a tutti noi e deve essere d'esempio alle nuove generazioni, che da questi uomini devono trarre esempio».
Le conclusioni sono state affidate a Giancarlo Bianchi, magistrato della Corte d'appello di Catanzaro, che ha firmato le sentenze di condanna, poi passate in giudicato, che hanno riconosciuto l'esistenza di numerose cosche mafiose della provincia di Vibo Valentia e di molte altre del resto della Calabria. «Il sacrificio di uomini come Falcone e Borsellino, l'esempio di chi come Pellegrini ha fatto parte di quell'esperienza, ha consentito che lo Stato prendesse contezza della portata del fenomeno e lo affrontasse - ha spiegato Bianchi -. Loro hanno fatto la lotta alla mafia, perché l'hanno sostenuta in una condizione reale, sostanziale, di isolamento. Grazie a loro oggi l'apparato repressivo dello Stato funziona. Ma la repressione da sola non basta, necessita la consapevolezza che le cose cambiano solo attraverso la cultura e il funzionamento delle istituzioni in tutte le sue componenti».