È andata in onda la prima di Crime Doc, una serie di cinque puntate inaugurata ieri con “Il delitto della Sapienza” che ha raccontato la storia della studentessa che venne colpita da un proiettile il 9 maggio 1997
Tutti gli articoli di Innocenti Evasioni
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È stata la mia altra Laura Palmer Marta Russo, una vita e un mistero cristallizzati in una foto che porto scolpita nella memoria da quel 9 maggio 1997 in cui un proiettile calibro 22 esplose in quella terra d’innocenza che sono i 20 anni. Io ne avevo 19 e vivevo a poche centinaia di metri dalla scena del delitto.
Troppo giovane per comprenderne l’enormità ma abbastanza grande per intendere che quel colpo ci aveva sfiorati tutti. Assurdo, le mie coinquiline di via Cremona 59 che ho subito allertato per sintonizzarsi su Raidue quasi non ricordavano più. Ho sbloccato loro un pezzo di vita e poi altri cento quando le ho chiamate per invitarle a vedere la prima di Crime Doc, una serie di cinque puntate inaugurata ieri con “Il delitto della Sapienza”.
Io invece quei giorni me li ricordo benissimo, fanno parte della mia storia personale. Ricordo la pizza bianca appena sfornata dall’egiziano quando la notizia venne data dai tg e il telefono di casa iniziò a squillare. Il boato di quel colpo s’era udito fino in Calabria mandando nel panico i nostri genitori: ci supplicavano di tornare, di non uscire. La mamma della mia compagna di stanza delirante ci pregava di andare a lezione con il casco. Fu naturale diventare pubblico di quel crime.
Era stata una roulette russa a designare la vittima. Una vita intera finì compressa in una fototessera. Portava choker al collo e sopracciglia sottili, come noi, la promessa della scherma che udienza dopo udienza spariva dal suo stesso film, eclissata dal processo e da due imputati che Lombroso avrebbe scagionato causa scrima di lato. Il sangue di una ragazzina s’era fatto pixel. E noi ce ne nutrivamo tra una sangria e una festa.
Ma chi era Marta Russo? Nella foto del suo tesserino c’eravamo riflesse come in uno specchio tanto da esonerarci dal chiederci chi fosse lei. Lei eravamo noi, caso chiuso. La beffa oltre il danno quando t’ammazzano: resti giovane per sempre ma la tua esistenza si comprime in un feticcio. La foto di Marta Russo, il costume bianco di Simonetta Cesaroni, gli occhiali di Elisa Claps. Ma loro?
«È l’occasione per fare uscire l’immagine di Marta dal caso di cronaca nera e farla diventare una figlia, una sorella, un’amica». Ha donato agli autori i diari della ragazza, Tiziana Russo, che quella mattina di maggio perse un pezzo della propria carne e poi l’identità – «diventai la sorella di Marta» – cosciente di questa sorta di omicidio secondario di cui sono vittime i protagonisti dei cold case. Nel documentario la narrazione post mortem – indagini, tg, udienze – si arricchisce di un elemento inedito: la vita della studentessa. Un riscatto alle esistenze cannibalizzate dai gialli di cui resta solo un’icona. Come quelle con cui attiviamo i file sui nostri desktop. Ieri quella della laureanda in Giurisprudenza che donò gli organi come ultimo atto me ne ha aperti un’infinità.
Nei maglioni di lana oversize dei residenti di piazza Bologna ho cercato Marta ma di nuovo ho trovato me. Non so se per mera autoreferenzialità, mitomania o se perché i sacrifici umani sono per natura intrinsechi di quella forza ancestrale che ci stordisce facendoci sentire della tragedia protagonisti (mancati). Superstiti a un destino formato fototessera.