Nel film c’è Madrid, c’è la Spagna, c’è el pueblo, la famiglia nella sua accezione più fluida e tanto altro. Non è la storia di due donne ma di una moltitudine, non ci sono storie o ruoli minori ma solo vite parallele
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C’è molto Almodovar in questo Almodovar. Ci sono le attrici feticcio. C’è Madrid, c’è la Spagna, c’è el pueblo. C’è la famiglia nella sua accezione più fluida: quella di sangue e l’altra, quella dei legami cuciti dal caso, indissolubili come la maternità che è condizione ancestrale, un destino non dipendente dal mettere al mondo un figlio: si nasce madri o si partorisce senza esserlo mai. Le ossessioni almodovariane sono dichiarate dal titolo, “Madres paralelas”, il genio e figlio per sempre Pedrido de la Mancha mette le mani avanti e si dichiara colpevole nel reiterare la propria mania.
La sua opera, del resto, prima che transfemminista è matriarcale e Francisca Caballero, la prima ragazza Almodovar, resta la sua vera musa sempre, intrusa nelle prime incandescenti pellicole in cui il maestro allestiva una sorta di caccia al tesoro di matrice hitchcookiana per individuarla, e onnipresente nelle altre. Dedicato a lei Tutto su mia madre, il capolavoro, di cui questo nuovo lungometraggio segue la ricerca ma mettendo in pausa il melodramma per lasciare spazio alla storia. Quella intima di due donne e la storia di Spagna.
Sullo sfondo degli accadimenti il dramma dei desaparecidos della grande guerra, perché non si può guardare al futuro senza fare i conti col passato. Passato, futuro, presente hanno lo stesso dna. Essere genitori, invece, prescinde da un test genetico.
Ci sono i giochi del fato e l’interscambio dei ruoli tipici dei paradossi almodovariani in questo nuovo capitolo in cui Penelope Cruz cita se stessa, ma a parti invertite, ritrovandosi nei panni che furono di Manuela in Todo sobre mi madre mentre la giovane Milena Smit eredita quello che fu il suo di ruolo. Ma il monologo (e il personaggio) di Aitana Sanche Gijon è totalmente “Tacchi a spillo”, madri biologiche ma distanti come un rumore di tacchi che si sente da lontano.
Ci sono poi i colori, l’armocromia almodovariana che non segue regole eccetto le proprie (gracias a Dios!). E c’è Volver nella storia che non si tramanda dai libri ma dal verbo delle antenate del paese in cui dalle metropoli si fa ritorno per ricomporre i pezzi mancanti dei propri mosaici. Morte e vita trame di una stessa tela come i fili delle Parche.
Madres paralelas non è la storia di due donne ma di una moltitudine. Una scatola cinese in cui l’obiettivo punta sulle protagoniste per poi ricostruire un intero gineceo. Il bello della poetica del director è proprio questo: i personaggi secondari sulla carta in realtà secondari non sono mai, ma hanno la forza e la dignità dei protagonisti. Non ci sono storie o ruoli minori ma solo vite parallele che accidentalmente si incontrano dando vita ad una visione. Le uniche comparse sono gli uomini. Dio è femmina ed il mondo di Pedro un harem.
In quest’ultimo c’è tutto: manca solo un pezzo struggente da ascoltare in cucina sentendosi una chica Almodovar.