Dopo un inizio traballante e lento spicca il volo e ci porta in un universo da cui sarà difficile scollarsi
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Anna esce di casa col cappotto troppo corto, troppo sbiadito. Va, cammina, sparisce. La perdiamo di vista per due interminabili puntate. Ma il punto è che dobbiamo inseguirla per riprenderla, perché dietro a un anonimo muto di cemento scorticato, si apre, finalmente, la storia.
Niccolò Ammaniti con “Anna”, la serie Sky original ora in programmazione, fa un po’ il percorso inverso rispetto al suo debutto come showrunner (di fatto lo è stato) ne “Il Miracolo”. Lì l’inizio è stato sfolgorante. Un incipit magistrale che, a partire dagli opening credit, trainati da “Il mondo” di Jimmy Fontana (potente detonatore), ha immediatamente aggredito lo spettatore senza lasciargli scampo.
Purtroppo, in quella serie, la benzina è finita presto, i fuochi sono stati sparati tutti e subito, e i personaggi hanno perso colore e forza, man mano, perdendo contorni, mordente, fascino, fino a sparire nella notte della dimenticanza.
In “Anna” è accaduto perfettamente il contrario. Si parte così in sordina che quasi la tentazione di mollare tutto prende il sopravvento. L’inizio è lento, sterile, ridondante, personaggi destinati ad aumentare la tensione e il grottesco (i gemelli ad esempio) non funzionano, sono forzati.
Il contorno stenta, non decolla, peccato averla vista questa falsa partenza e che fortuna avere insistito. Allora facciamo così, fingiamo che le prime due puntate non esistano, creiamo un montaggio dello spettatore, sforbiciamo, e iniziamo da lì, dal terzo capitolo: “Ridono le Iene”, e godiamoci lo spettacolo.
Se si approda al parallelo crudissimo di Ammaniti (dipinto nel suo romanzo prima, e sullo schermo ora) meglio essere preparati: c’è tanto sangue, c’è l’orrore, c’è la cattiveria purissima dei bambini assassini, selvatici, lasciati non a crescere ma a marcire da soli. Lo scrittore sfata ogni tabù, ferisce un argomento su cui il mondo ci va sempre leggero: l’inviolabile purezza dell’infanzia, e ci gira il coltello dentro facendo del male a tutti. E fa bene.
È un’opera surreale, portatrice insana di una magia sporca e sbeccata, è un incubo senza speranza tra l’Etna e il Mediterraneo, è la morte che manda in cancrena ogni alito di sogno. Ma non è un non-luogo quello dentro cui si muove Ammaniti, c’è tutta la Sicilia, e ci sta da dio.
Lo scrittore non si scolla dal reale ma lo usa come grimaldello per sfondare la porta ed entrare direttamente negli occhi aperti degli spettatori. C’è Palermo, c’è la melodia dell’accento siculo che dondola in ogni frase, c’è il mare dello Stretto che guarda al Continente, le ombre dei pupi, i colori naif dei tavulazzi.
Di cosa parla Anna? Non è facile da dire, specie adesso. Racconta di un virus, La Rossa, che ha sterminato la popolazione lasciando in vita solo i bambini che, crescendo, saranno destinati ad ammalarsi e morire anche loro. L’ingresso nella vita adulta per loro è vietato, è un terreno circondato da un filo elettrico ad alta tensione, è un diritto che l’umanità ha perduto per sempre.
Oltre i campi insozzati di stracci bagnati, di giochi rotti, di resti di mondo, di denti a pezzi, di ossa piene di sangue rappreso, non si passa. E allora cosa accade? Cosa accade su un pianeta in cui gli ultimi bambini si ritrovano a vivere da soli, senza guide, senza regole, senza adulti, senza coscienza del bene e del male?
Ammaniti ha immaginato proprio questo mondo, togliendo fuori le viscere gocciolanti dalla pancia di un pensiero libero. I bambini, gioia della vita, i bambini, candore, felicità purissima, innocenza, diventano selvaggio umore senza confini, sono canzonatori, sbeffeggiatori, frattaglia acritica senza direzione, aguzzini, indifferenti, che non sapranno mai cos’è la pietas e a cosa serve. Vivono in un Paese dei Balocchi dismesso e senza gioia, neanche momentanea, in cui il prezzo da pagare non è la trasformazione in asini ma in morti.
Sono piccoli cibati, fino a prima della fine del mondo, di reality show, talent show, cooking show rimasti, come schegge di vetro conficcate nella mano, come ultimo barbaglio della vita di prima, ispirazione collettiva, motivazione, incontestabile desiderio insensato e fuori contesto.
È vero, è un momento molto difficile per guardare questa serie tratta dall’omonimo romanzo di Ammaniti. Dopo il rullo con le produzioni una soffertissima scritta avverte, quasi scusandosi, che la serie è tratta da un libro pubblicato sei anni prima e che l’emergenza Covid è esplosa sei mesi dopo l’inizio delle riprese. Ma “Anna” non è il virus, è molto di più, scava così a fondo in un universo così sconosciuto, quello dell’infanzia, che alla fine ne usciremo un po’ cambiati.
A proposito dei bambini attori. Straordinari, semplicemente incredibili: dal piccolissimo Nicola Mangano alla protagonista Giulia Dragotto (che cresce di puntata in puntata) alla gelida Matilde Sofia Fazio che interpreta forse uno dei personaggi più belli, Angelica. Sottoposti a scene anche molto difficili, a volte acrobatiche, spaventose, i piccoli hanno dimostrato una bravura fuori dal comune.
Nel parco attori (adulti) due menzioni particolari: Roberta Mattei, che interpreta la sarta Katia destinata a diventare la “Picciriddura”, e il bravissimo Nicola Nocella (l’amico di Pietro da bambino) che resta sullo schermo per poco tempo e conferma l’adagio: non esistono piccole parti ma piccoli attori.
Perché vedere “Anna”? Perché è una bella storia, perché è raccontata bene (superati i primi due episodi traballanti), perché le atmosfere sono sontuosamente decadenti, fascinose, piene di sogni interrotti, perché le case nobiliari puzzano ma sono colorate, i morti sono morti, senza censura, si vedono, si toccano, finalmente. Nell’opera c’è il coraggio di raccontare visioni scomode e fastidiose, che è quello che dovrebbe fare ogni scrittore: spingere, spingere, senza aver paura, Ammaniti non ne ha.