I dati di Inps, Istat, Inapp, Caritas e di altre ricerche accademiche dimostrano che le cose sono più complesse della propaganda politica di Renzi, Salvini e Meloni e che i casi di frode rappresentano una percentuale irrisoria rispetto ai benefici
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Lo strumentalismo ideologico messo in campo da Lega, FdI e Renzi contro il reddito di cittadinanza è irresponsabile e rappresenta un crimine verso quelle sacche di povertà nazionale determinata dalla mancanza di lavoro ma non solo da quello.
La violenta campagna dei leghisti, dalla fratellanza della Meloni e di Renzi contro il reddito di cittadinanza, dunque, è frutto di un dibattito che poco ha a che vedere con l’efficacia o meno della misura. Utilizzare poi, i vari scandali che stanno emergendo intorno alla misura è assolutamente ipocrita. Migliorare il sistema dell’erogazione del RdC, significa anche rendere più rigorosi i controlli. E, forse, ci dimentichiamo che in questo Paese le truffe sono all’ordine del giorno in tutto i settori: sarebbe appena il caso di ricordare agli scandalizzati Meloni e Salvini della lunga lista di imprenditori irreprensibili e vip di questo Paese che hanno truffato di tutto, dai contributi all’Europa al fisco, all’Inps, al sistema sanitario e via discorrendo. Non mi pare che sol perché siano state commesse tali truffe ai danni di queste istituzioni, qualcuno dei liberal di casa nostra si sia mai sognato di chiedere l’abrogazione delle misure.
Far passare l’idea che il reddito di cittadinanza, usato dalle migliori democrazie liberali d’Europa, sia una misura truffaldina che danneggia il mercato del lavoro non solo è falso ma è una truffa ai danni delle categorie sociali più in difficoltà. È fuori discussione che l’istituzione del Reddito di cittadinanza ha rappresentato e sta rappresentando una misura utile per contrastare povertà e disagio sociale quando a percepirlo sono soggetti che si trovano in condizioni di difficoltà, talvolta per causa di mancanza di lavoro ma anche per inabilità fisiche specifiche.
Renzi, Lega e FdI stanno alzando il tiro contro il RdC per motivi abietti e cinicamente legati alla politica e, particolarmente, in chiave anti alleanza Pd-M5s. La lotta politica è legittima e, tuttavia, quello che non può essere legittimo nello scontro politico è trascinare dentro le miserabili caciare elettorali le categorie sociali più fragili della società, manipolando con la solita retorica politica di basso livello i dati reali e calpestando, con un dibattitto grossolano, delicate dinamiche sociali. La disaffezione alla politica nasce anche da questi atteggiamenti. O forse tutto questo è sconnesso dalla drammatica realtà che ci hanno consegnato le ultime elezioni amministrative, e cioè che le periferie non si recano più a votare?
L’attacco al RdC è anche un attacco al Sud e alla Calabria. La parte di Paese dove è concentrata la più grande fetta di povertà. Un esempio: in Campania le famiglie che percepiscono il reddito o la pensione di cittadinanza sono state quasi 300mila, un numero che sfiora quello dell’intero Nord con 281.786. Questo provvedimento, dunque, pur con tutte le sue contraddizioni, è stato fondamentale nell’impedire che milioni di persone nella pandemia finissero in condizioni irreversibili di povertà assoluta.
Gli unici numeri di cui siamo a conoscenza, finora, sono solo quelli riportati dai rapporti di ricerca pubblicati nei mesi scorsi da istituti accreditati come l’Inps, l’Istat, l’Inapp e l’Ufficio Studi della Caritas, a cui si aggiungono molte altre ricerche accademiche, che dimostrano che le cose sono più complesse della propaganda politica e che i casi di criminali che ricevono il reddito, i casi di frode, prontamente individuati, sono comunque una percentuale irrisoria. Mentre la campagna di alcuni leader politici contro il reddito è fango gettato addosso a chi è povero.
Per restare nel Mezzogiorno, il solo tasso di occupazione dei lavoratori dai 15 anni di età in poi è un indicatore che descrive in maniera sintetica il quadro attuale del mercato del lavoro del Sud. Attualmente il livello occupazionale del Meridione si ferma al 34% a fronte di una media nazionale che è del 44,1%. Oggi nell’ambito di quella che può essere chiamata “bottom ten” della classifica basata sul tasso di occupazione generale, insieme a due territori d’oltremare francese e tre aree della Grecia, ci sono le regioni del Sud esaminate, fatta eccezione della Sardegna che si estranea (anche se di poco) da questo lotto.
Gli odierni posizionamenti risalgono alla crisi economica della fine del primo decennio 2000. Da quel momento in poi tutte le sei regioni hanno di fatto gravitato quasi sempre nelle posizioni di coda della classifica, rimanendo sempre lontanissime dai migliori piazzamenti storici riscontrabili ad inizio secolo che comunque, va detto, non hanno mai travalicato la 200esima posizione, salvo qualche eccezione legata alla Sardegna.
Anche le informazioni congiunturali confermano la debolezza del mercato del lavoro meridionale. I dati tratti dal sistema informativo Excelsior realizzato da Unioncamere e Anpal, e che consentono di monitorare con cadenza mensile le entrate di lavoratori nelle imprese, sono piuttosto chiari. Se in Italia, le imprese prevedono un livello di entrate di personale nel periodo settembre-novembre 2021 valutabile in 38,8 unità per 1.000 abitanti in età 15-64 anni, nel Sud ci si ferma 12 punti più sotto (27,2). Si tratta di una situazione diffusa anche a livello provinciale, in quanto tutte le province presentano valori inferiori a quello medio nazionale, con ben sette circoscrizioni posizionate addirittura sotto quota 20 entrate ogni 1.000 residenti in età lavorativa e concentrate solo in tre regioni: Calabria, Sicilia e Sardegna.
In un quadro strutturale del genere il reddito di cittadinanza è stata una misura salvifica per arginare la deriva sociale del Sud. La battaglie dei prossimi mesi sul reddito e sulla sua riforma, dunque, dovrebbe vedere in prima fila le regioni del Sud, a cominciare dai suoi governatori. Il ministero del Lavoro ha istituito una commissione, presieduta da Chiara Saraceno, la quale sta lavorando a proposte ragionevoli di riforma del reddito di cittadinanza che riguardano diversi aspetti della misura: dal miglior coordinamento tra gli attori in campo, alla maggiore inclusione delle famiglie immigrate, dei senza dimora e delle famiglie numerose (queste ultime penalizzate dalla scala di equivalenza utilizzata e dalla mancata considerazione della dimensione familiare nella valutazione del costo dell’affitto), dalla contraddizione tra natura familiare del trasferimento e responsabilità individuale (se un componente della famiglia per una qualche ragione rifiuta una offerta del lavoro è l’intera famiglia a decadere dal beneficio) fino al punto considerato più critico e cioè alla confusione tra sostegno non categoriale al reddito e politica attiva del lavoro e al tipo di servizi che occorre garantire a chi è in grado di partecipare al mercato del lavoro e chi no.
Un altro correttivo interessante potrebbe essere quello del coinvolgimento degli enti locali, dei Comuni in particolare, che dovrebbero entrare in campo e interessare i percettori, quelli abili a svolgere mansioni anche semplici, per svolgere attività di utilità pubblica per poche ore la settimana: aiutare in biblioteca, all’ufficio del protocollo, ai servizi sociali, curare archivi o tagliare erba nei giardini pubblici. Potrebbe essere una svolta importante, di grande utilità per la collettività. Sarebbe anche un disincentivo agli imbrogli, visto che il truffatore di turno sarebbe costretto comunque a svolgere un’attività lavorativa, peraltro pubblica e visibile. Il dibattito su questa misura, dunque, dovrebbe concentrarsi sui correttivi costruttivi piuttosto che sulla polemica strumentale che ha distrutto questo Paese.