Il centrodestra teme molto la consultazione popolare, a partire da Roberto Occhiuto che profetizzò: «In Calabria il sì vincerebbe 90 a uno». Per questo le forze di Governo puntano sull’astensionismo. Dal 2000 ad oggi, su sette referendum svolti, solo nel 2011 si è raggiunto il quorum
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Via libera, ma con riserva, al referendum per l’abrogazione della legge sull’autonomia differenziata. Lo ha deciso l’ufficio centrale del referendum della Corte di Cassazione che ha giudicato legittima la richiesta di abrogazione della legge proveniente dalla raccolta firme iniziata lo scorso 20 luglio e che ha toccato oltre 1 milione e trecentomila firme sulla spinta di Cgil, giuristi, regioni, opposizioni parlamentari ed esponenti della società civile.
L’ok, però, è arrivato con riserva perché adesso tocca alla Corte Costituzionale decidere sull’ammissibilità del referendum. Il punto giuridico è capire se la legge tocca in qualche modo materie di bilancio che la nostra Costituzione esclude fra le norme sottoponibili a referendum. La Consulta dovrebbe decidere entro il 20 gennaio.
Non sono stati ammessi, invece, i ricorsi presentati da cinque regioni Campania, Emilia-Romagna, Toscana, Sardegna e Puglia, che chiedevano l’abrogazione parziale della legge perché riguardano parti del provvedimento già ritenute illegittime dalla Corte Costituzionale nella sua ultima sentenza.
Quello che per ora conta è il nulla osta della Cassazione con la quale si va concretizzando una delle maggiori paure del presidente della giunta regionale Roberto Occhiuto che da sempre predica prudenza sulla riforma e si era spinto a dire al consiglio nazionale azzurro di luglio «Spero non si faccia il referendum, perché temo molto i suoi esiti. In Calabria la consultazione finirebbe 90 a 10 contro l’autonomia: lo stesso risultato si avrebbe in tante altre Regioni del Sud. E quel 90% di elettori che voterebbe contro l’autonomia non sono solo elettori di centrosinistra, sono anche tanti elettori di centrodestra».
Il referendum invece rischia proprio di farsi presumibilmente in una finestra che va dal 15 aprile al 15 giugno. Naturalmente il pronunciamento della Corte costituzionale non è l’unico ostacolo sulla strada dell’abrogazione della legge Calderoli. L’altra grande insidia è quella del quorum. Affinché la legge sia abrogata, però, sarà necessario che – oltre a vincere il “sì” – partecipi alla votazione la maggioranza degli aventi diritto al voto. E non è un fatto scontato, se consideriamo che dal 2000 in poi, in sette diverse tornate referendarie, il quorum è stato raggiunto una sola volta, nel 2011 (allora si votò per il nucleare, l’acqua pubblica e il legittimo impedimento).
Proprio sul fattore astensionismo sembra puntare Giorgia Meloni per uscire da una situazione di grande delicatezza politica perché il referendum rischia di trasformarsi in una sorta di consultazione politica. Consapevole che il Nord non ha grandi interessi ad andare a votare e che nel Sud l’astensionismo è molto radicato, il fallimento del referendum toglierebbe a lei, e a Forza Italia, le castagne dal fuoco.
Su questo punta anche la Lega, al punto che il Governatore del Veneto, Luca Zaia, non si mostra per nulla preoccupato. «Noi andiamo avanti» ha commentato, aggiungendo, riferendosi all'opposizione: «Ora però avete un problema, cioè quello di trovare i voti». Se i voti vanno come la raccolta firme, non dovrebbero esserci problemi.
Nel caso di raggiungimento del quorum e di vittoria del sì la legge Calderoli non può essere riproposta almeno fino a fine legislatura secondo gli orientamenti della Corte Costituzionale. Nel caso in cui non si raggiungesse il quorum o vincesse il no è verosimile che avremo una riforma della legge Calderoli che recepisca le indicazioni della sentenza della Corte Costituzionale che ha giudicato la legge anticostituzionali in una serie di parti, a cominciare dalla definizione dei Lep.
Insomma la battaglia del referendum per ora è vinta, ma tocca vincere anche la guerra.