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Una riforma serve. Lo hanno capito anche i più accaniti sostenitori delle misure più estreme. Ma forse, non esattamente nella direzione auspicata dai sindaci calabresi che di recente hanno protestato sino a Roma. Perché l’opinione della commissione parlamentare antimafia in tema di scioglimento di consigli comunali, è di tutt’altro tenore. Anzi, si rivolge proprio ad una ineludibile prospettiva di riforma, con l’obiettivo di rendere l’attuale normativa più adatta a contrastare quei fenomeni di condizionamento che neppure ripetuti scioglimenti hanno saputo risolvere. Si evince questo dal breve passaggio dedicato dalla commissione, nella relazione generale sul lavoro svolto, alla problematica situazione riguardante la Calabria.
L’escalation e la necessità di riforma
«Appare ormai indifferibile – si legge nella relazione – un aggiornamento della normativa vigente, contenuta nell’art. 143 del D. Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, recante il Testo Unico degli Enti Locali, sostanzialmente calibrata a suo tempo per intervenire, con finalità di prevenzione, su realtà amministrative, tipicamente di piccole dimensioni e collocate nelle regioni di tradizionale insediamento delle organizzazioni criminali mafiose».
Secondo i commissari, infatti, «dai primi casi di applicazione nel 1991, negli anni più recenti si è assistito a una vera e propria escalation sia in termini territoriale, con il coinvolgimento di comuni ubicati in regioni diverse da quelle di tradizionale insediamento, specie al nord, sia in termini di popolazione degli enti sciolti, arrivati progressivamente anche a comuni con decine si migliaia (centinaia nel caso del X Municipio di Roma Capitale – Ostia) di abitanti, sia in termini di rilevanza amministrativa: nel 2012 si è purtroppo arrivati a sciogliere per infiltrazioni mafiose per la prima volta un capoluogo di provincia importante come Reggio Calabria. Proprio in Calabria la situazione appare particolarmente seria, a causa della concentrazione in quella regione di comuni oggetto della “misura dissolutoria”, come si dice nel lessico amministrativo, registratasi in particolare nell’ultimo anno».
Il degrado della politica
La commissione non ha difficoltà a riconoscere come «desta gravissime preoccupazioni l’alta incidenza del fenomeno in relazione alla popolazione complessiva e al numero dei comuni della regione, nonché rispetto al numero delle recidive di amministrazioni comunali già sciolte per infiltrazioni mafiose in precedenza, anche più volte, a riprova di condizioni di degrado della vita politica e amministrativa degli enti che la misura di mero scioglimento non è stata in grado di risanare, o quanto meno di impedirne la riproposizione a distanza di un breve lasso di tempo».
La burocrazia e le proposte di riforma
E così si arriva al punto centrale, che da molti è ritenuto quello ancora poco esplorato: la burocrazia. La commissione, scrive, «ha sempre sostenuto l’azione delle commissioni straordinarie incaricate della gestione dell’ente dopo lo scioglimento per mafia, in particolare per l’adozione di incisive misure nei confronti della componente amministrativa del comune sciolto, soprattutto al livello dirigenziale, che molto spesso rimangono al di fuori del focus degli effetti dello scioglimento, indirizzato all’organo elettivo, riuscendo di fatto ad attraversarne le vicissitudini in modo praticamente indenne». Cosa fare dunque? La linea sembra già tracciata: «Occorre specialmente riflettere sulla necessità di uscire, in sede di valutazione delle risultanze dell’accesso ispettivo – spiega la commissione – dall’alternativa secca, manichea, tra la l’adozione del provvedimento di scioglimento e la dichiarazione di chiusura del procedimento. La misura dissolutoria, infatti, certamente non è priva di un effetto sanzionatorio, a livello politico e a livello amministrativo ai fini della causa di ineleggibilità specifica di cui al comma 11 dell’articolo 143, sulla compagine politica – sindaco, componenti della giunta e del consiglio comunale - al governo dell’ente; l’archiviazione sic et simpliciter, invece, può paradossalmente produrre gli effetti di una misura assolutoria dell’amministrazione in carica, con involontari effetti di legittimazione o persino di rafforzamento anche quando, come spesso accade, la commissione di accesso abbia rilevato irregolarità, anche gravi, di gestione ma non tali da integrare i requisiti per lo scioglimento. Questi ultimi sono stati resi più stringenti anche per l’azione della giurisprudenza amministrativa in materia, per cui sono oggi necessari elementi “concreti, univoci, e rilevanti”». Da qui la proposta di intervento, a carattere tutorio, analogo per certi versi al controllo giudiziario introdotto per le aziende sequestrate e confiscate alla criminalità organizzata. «Occorre uno strumento più duttile, capace di far fronte alle esigenze di governo di comunità vaste e complesse». Un’idea che si concilia con quanto detto dall’ex procuratore di Reggio Calabria, oggi a capo della Direzione nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho.
Consolato Minniti