Il poeta è stato tra i primi a cogliere ragioni e conseguenze di un fallimento legato senz'altro alla burocrazia e alle resistenze delle vecchie classi dei proprietari terrieri, ma anche a distorsioni nell'osservazione e nel racconto
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Rocco Scotellaro
Tra il dicembre del 1952 e i primi mesi dell'anno successivo, quello della sua morte improvvisa e prematura, Rocco Scotellaro, in compagnia di Carlo Levi, compie un viaggio in Calabria, documentato nei Taccuini pubblicati lo scorso anno da Franco Vitelli e Giulia Dell'Aquila per Quodlibet.
Il poeta, nato a Tricarico nel 1923, passa da Spezzano della Sila, San Giovanni in Fiore, Santa Severina, Isola Capo Rizzuto, Melissa, Corigliano, Terranova di Sibari, Spezzano Albanese e, in tutti questi luoghi, prende coscienza del fallimento della riforma agraria e dell'«immutato regime della proprietà fondiaria». Lo spirito conservatore, paternalistico e tecnicistico con il quale gli enti preposti hanno portato avanti la riforma, mantenendola entro limiti eccessivamente angusti, ha fatto sì che essa non sia riuscita a sottrarre il Mezzogiorno a una condizione di arretratezza che, come sappiamo, permane anche oggi. Le ragioni sono dedotte con lucidità nella cronaca di quel viaggio: la riforma non ha in quasi nessun caso tenuto conto del grado di sviluppo produttivo della terra e dei bisogni sociali di chi la lavora.
Secondo Scotellaro, si sarebbe dovuto differenziare gli interventi in relazione alle condizioni delle zone interessate. Ossia, si sarebbe dovuto intendere i contadini come soggetto della riforma e non come oggetto. Perché non lo si è fatto? Perché allora, come molte altre volte nei decenni successivi, la macchina statale ha operato a distanza, non sentendo mai il bisogno di recarsi sul posto per conoscere le diverse realtà sulle quali era necessario agire. Operando, dunque, in senso strettamente politico, quasi esclusivamente sul piano economico e in funzione soprattutto della pressione sociale da alleggerire, l'intervento di Stato ha finito per non rispondere alle richieste dei contadini. Ha perso l'occasione di unire i contadini, forse perché non ne ha mai avuto l'interesse, di formare «una vera classe dirigente» e di definirne identità, condizioni culturali e azioni in termini di soggetto.
È così che, pur in presenza di una coscienza sufficientemente matura nelle richieste dei contadini, non si è mai potuto avviare davvero quel moto spontaneo di rinnovamento delle campagne di cui Scotellaro, appena trentenne, ha fatto in tempo ad accorgersi. Infatti, è stato tra i primi a cogliere ragioni e conseguenze di un fallimento legato senz'altro alla burocrazia e alle resistenze delle vecchie classi dei proprietari terrieri, ma anche a distorsioni di un'osservazione e di un racconto quasi sempre compromessi dall'eccessiva distanza dell'impianto governativo e da schemi culturali precostituiti.