I grandi della Terra che hanno ignorato i suoi appelli domani saranno ai suoi funerali. Papa Francesco è stato l’ultimo argine alla barbarie, senza di lui la Chiesa non sarà più la stessa. E forse nemmeno noi
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Papa Francesco
C’è un silenzio diverso, in queste ore, sopra Roma. Non quello dell’indifferenza. Non quello della stanchezza. Ma un silenzio che avvolge e punge, che fa tremare i sampietrini sotto le suole, che dilata le pupille e le coscienze. Un silenzio che contiene tutte le parole che non siamo stati capaci di dire, tutti gli ascolti mancati, tutti i no sussurrati da chi si è voltato dall’altra parte.
È il silenzio che precede l’arrivo del popolo. Papa Francesco, Jorge Mario Bergoglio, l’uomo venuto dalla fine del mondo per restituire un volto umano alla Chiesa, se n’è andato. E Roma si prepara a piangere un uomo che ha incarnato il Vangelo come pochi altri prima di lui. Non lo ha predicato dall’alto delle cattedre, non lo ha declinato in potere, né lo ha trasformato in dottrina. Lo ha camminato, come si cammina in una bidonville, lo ha respirato nelle periferie, lo ha sporcato del fango degli esclusi.
È stato un Papa, sì. Ma soprattutto è stato un uomo. E questo, per alcuni, è rimasto imperdonabile.
Lo hanno amato i laici, i miscredenti, gli ultimi e i perduti. Lo hanno temuto, invece, i custodi del tempio, i benpensanti, i farisei in clergyman. Perché era troppo semplice, troppo evangelico, troppo spiazzante.
È stato un Papa che non abbassava lo sguardo, che rifiutava i palazzi, che si presentava come un “peccatore perdonato”. E questo, agli occhi dei teologi da talk show, dei cardinali dalle mani laccate, dei vescovi da salotti ingioiellati, suonava come una bestemmia.
Lo hanno attaccato. Lo hanno delegittimato. Lo hanno isolato. Dal cardinale Müller al vescovo Viganò, fino ai vescovi americani che lo accusavano di tradire la dottrina: la sua croce non è mai stata il dubbio, ma la resistenza interna di una Chiesa che avrebbe dovuto seguirlo e invece ha spesso preferito voltargli le spalle. La sua rivoluzione — perché sì, è stata rivoluzione — è andata avanti a fatica, come tutte le rivoluzioni vere. Quelle che lasciano il segno anche quando non conquistano il potere o quando non si realizzano completamente.
In un tempo in cui tutto si consuma, Bergoglio ha tolto il sacro dalla porpora per restituirlo alla carne.
Non ha tolto il sacro dal mondo, ma dai velluti, dagli inchini, dalle stanze dei potenti. E lo ha rimesso dove deve stare: nel sudore, nella fatica, nell’amore. Il suo pontificato è stato un movimento verso il basso.
Come se il cielo si fosse ribaltato, e fosse possibile attraversarlo a piedi nudi, dopo aver sceso le scale di San Pietro.
San Pietro resta aperto anche di notte. Non per cerimonia. Ma per necessità. Perché il popolo viene e verrà.
Un fiume di volti, un grido muto che attraverserà l’Italia, l’Europa, il mondo. Trenitalia ha messo sconti del 40% per raggiungere Roma. Non accade per un concerto, né per un politico. Ma per un uomo che è stato Vangelo.
Un mare di persone accompagnerà il feretro fino a Santa Maria Maggiore.
E intorno a lui, come in un teatro di contraddizioni, si affolleranno capi di Stato e potenti della terra.
Molti di loro oggi si mostrano addolorati, sventolano ricordi intimi, vantano confidenze e legami probabilmente inventati o mai esistiti davvero. Ma quando lui era vivo, non lo ascoltavano: lo lasciavano parlare al vento, come si fa con chi disturba il banchetto del potere. Era troppo scomodo, troppo vero, troppo solo.
Hanno ignorato le sue parole sulla guerra, sui migranti, sul capitalismo selvaggio, sulla disumanizzazione del profitto.
Eppure saranno lì.
Trump, Milei, von der Leyen, Macron, Meloni, Zelensky, Guterres, Salvini, Piantedosi.
Assenti illustri: Putin, Netanyahu, Xi Jinping.
Presenti invece i reali d’Europa, i vertici delle istituzioni Ue, presidenti e premier di mezzo mondo.
C’è chi lo ha definito “comunista”. Chi lo ha deriso per aver parlato di “genocidio” a Gaza. Chi ha cancellato in fretta e furia i messaggi di cordoglio. Ma tutti — o quasi — saranno lì. A portare la loro insopportabile maschera ipocrita in una scena che profuma di Vangelo e contraddizione.
Ma Roma, la notte, è capace di poesia crudele.
In via Nicolò Piccolomini, a due passi dalla Città del Vaticano, tra i pini e le vedute improvvise sulla Cupola, è apparso un murale. L’ha firmato Laika.
Papa Francesco, ritratto in cielo, osserva la lista dei suoi invitati e mormora: “Ma questi chi li ha invitati?”.
Un colpo di genio.
Un’epigrafe moderna.
Un atto di giustizia poetica.
Perché davvero questo Papa, da vivo, ha scomunicato il potere senza mai usare la scomunica. E ora il potere arriva in abito nero, col lutto al braccio, a rendere omaggio a ciò che non ha mai compreso.
Francesco è stato l’ultimo argine alla barbarie. Non per dottrina, ma per testimonianza.
Non è mai stato un teologo da cattedra, né un riformatore sistematico.
È stato un uomo. Che guardava. Che ascoltava. Che piangeva.
Un uomo che accarezzava i bambini in carrozzina, che chiamava i migranti “fratelli”, che si inginocchiava davanti a chi aveva perso tutto.
Ha fatto ciò che poteva, con i mezzi di un pastore disarmato. Ha fallito? Forse. Ma ha lasciato crepe nel marmo. E in quelle crepe, forse, un giorno germoglierà qualcosa.
La Storia lo dirà. Ma noi, intanto, lo piangiamo.
Lo piangono i poveri, i detenuti, i profughi.
Lo piangono le madri delle guerre, i figli dei campi profughi, le periferie del mondo.
Lo piangono quelli che non hanno mai avuto voce, perché in lui l’avevano trovata.
E lo piangiamo anche noi, laici e irregolari, peccatori e disobbedienti, che nel suo sguardo avevamo trovato qualcosa di più grande della religione: avevamo trovato l’amore.
Roma torna a essere centro del mondo. Ma non per i suoi monumenti, i suoi palazzi, né per le sue cupole.
Torna a esserlo perché un uomo forte e determinato, ormai troppo piegato e stanco, ha fatto della propria vita una parabola.
E ora quella parabola si chiude, lasciando un segno indelebile sulla carne del nostro tempo.
La Chiesa non sarà più la stessa. E forse nemmeno noi.