Berlino si è riempita di 250.000 voci che, come un unico coro, hanno urlato il loro rifiuto dell'estrema destra, protestando contro la pericolosa collaborazione tra la Cdu e l'Afd. Hanno riconosciuto il pericolo, lo hanno nominato, indicato e, con determinazione, lo hanno respinto. Perché in Germania il nazismo non è una macchia da sbiadire, non è un errore da ridimensionare. È il male assoluto, una lezione impressa nella carne della Storia e tramandata come un monito.

E l’Italia? L’Italia, come sempre, è un Paese che sfugge alla sua stessa ombra, che gioca con la propria colpa, che la trasforma in folklore, in nostalgia da bar, in meme sui social. Il fascismo non ha avuto la sua Norimberga, non ha subito un'abiura collettiva. Lo abbiamo trattato come un’ingenuità giovanile, una “collaborazione collaterale”, un incidente di percorso da dimenticare in fretta.

Ma il fascismo italiano non è stato un gregario, non è stato il servo sciocco del nazismo. È stato il precursore, il modello, il complice consapevole. Ha firmato le leggi razziali, ha deportato e ucciso, ha annientato la libertà con la stessa determinazione con cui oggi l’estrema destra cerca di riscrivere la storia.

«Ogni epoca ha il suo fascismo», scriveva Primo Levi. «A volte assume il volto della violenza, altre volte quello dell’indifferenza, della rimozione, del silenzio».

In Italia il passato è una nebbia densa, un terreno su cui si riscrivono continuamente le responsabilità. Mentre a Berlino la piazza si riempie, qui ci si affida alle solite ambiguità. Si ammicca, si relativizza, si minimizza. La destra italiana non ha mai dovuto rinnegare se stessa fino in fondo. Mai.

I segnali sono inequivocabili e sempre più evidenti: esponenti politici che indossano una felpa della Decima Mas, le parate nostalgiche a Predappio davanti alla tomba del Duce, i raduni di estrema destra ad Acca Larentia, ministri che dichiarano che «l'antifascismo non è in Costituzione», fingendo di dimenticare che senza antifascismo quella Costituzione non sarebbe mai esistita.

Ma non è solo questione di politica, è anche una questione di cultura e di mentalità. È quel “vizietto” italiano, quella scorciatoia morale che già Leopardi denunciava ne La ginestra: «E fieramente insieme e mansueti / gli uomini e le cittadi e le campagne / d'abitar ti feri». L'Italia è sempre stata capace di convivere con i propri mostri, di piegare la memoria a necessità contingenti, di mutare la Storia in un racconto comodo, docile, pacificato.

Ma la Storia non si può addomesticare per sempre. «La libertà è sempre la libertà di dissentire», ammoniva Rosa Luxemburg. Eppure, in Italia, il dissenso sembra essersi fatto fievole, esitante, impaurito. Mentre in Germania il popolo riempie le strade, qui ci si abitua, si abbassa la voce, si accetta l’inaccettabile.

Il vecchio mondo non è mai morto davvero. Perché, come scriveva Gramsci, «il vecchio mondo sta morendo. Il nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri».

Oggi la Germania si riempie di voci che dicono «mai più». E in Italia? Qui, mentre si sdoganano simboli, nomi e ideologie, l’antifascismo si fa fragile, intermittente, sussurrato.

Mentre Berlino riempie le piazze, qui ci riempiamo di scuse. «Non è questo il problema», «Non siamo come loro», «Non tornerà mai davvero». Frasi già sentite, già fallite. Perché il fascismo non ha bisogno di marciare su Roma. Gli basta camminare in silenzio, passo dopo passo, mentre gli altri guardano altrove.