È stato un gran bene che si sia parlato delle dichiarazioni - discutibili come da copione - di Ignazio La Russa a proposito dell’attentato di Via Rasella del 1944, perché significa che la coscienza civile italiana, dopo tutto, è sempre viva e vigile.

Quelle dichiarazioni hanno fatto scalpore, soprattutto quando l’indicibile Ignazio ha arbitrariamente trasformato un reparto regolare della Wehrmacht in una «banda musicale» senza un minimo ritegno di decenza.

Si potrebbe raccomandare a La Russa, che oggi è un’alta carica dello Stato – ma forse bisognerebbe dire un alto “carico” dello Stato, di non dire stupidaggini, ricordandogli che, in un modo o in un altro, la Resistenza non si tocca e farla finita lì. Ma sarebbe sbagliato, perché Ignazio La Russa non ci è ma ci fa, ha un cervello che funziona benissimo e, di fronte all’argomentazione del valore della Resistenza, ha buon gioco a dire che lui è il primo a rispettarla e che ha voluto solo sollevare qualche dubbio sulla “nobiltà” di Via Rasella per spirito umanitario.

Ed allora bisogna andare oltre e dire che, quando afferma che Via Rasella non ha niente di “nobile”, La Russa tecnicamente ha anche ragione. La guerra è il peggiore dei crimini contro l’umanità e Via Rasella fu un atto di guerra. Ed ogni atto di guerra mortifica l’umanità, soprattutto quella di chi lo compie.

Per questa ragione il valoroso “gappista” milanese Giovanni Pesce, medaglia d’oro della Resistenza, quando, a guerra finita, qualcuno gli chiedeva quanti tedeschi e quanti fascisti avesse “fatto fuori”, diventava gelido e rispondeva: «Io non ho fatto fuori nessuno. Io ho partecipato a una guerra di liberazione».

Pesce, come tutti i militanti della Resistenza, considerava infatti l’atto dell’uccidere e dell’essere ucciso come parte di una guerra che, a ragione, considerava giusta.

Non c’è stato quindi mai orgoglio omicida in nessuno dei combattenti della Resistenza, soprattutto in Rosario Bentivegna e Carla Capponi, che furono tra gli organizzatori dell’attentato di Via Rasella e che si sono portati dietro le ferite interiori e le stimmate pubbliche di questo evento, da parte degli “storici” all’ingrosso come La Russa, per tutta la durata della loro vita.

Eppure, il nostro presidente del Senato non parla a vanvera in maniera casuale, ma per lanciare un messaggio mediologico, molto preciso e solo in parte “sotto traccia”, che va rigettato completamente, quello secondo il quale, in nome dell’umana pietà per i morti, si devono mettere sullo stesso piano le vittime del Terzo Reich e della repubblica di Salò – da cui il primo partito in cui ha militato Ignazio La Russa storicamente discende, con le vittime della Resistenza e del popolo italiano.

Non c’è alcuno spirito “umanitario” nelle parole di La Russa, che propone la classica notte in cui, per dirla con Hegel, «tutte le vacche sono nere».

Se oggi possiamo provare una uguale pena umana per le vittime di Via Rasella e per quelle di Marzabotto, non possiamo essere altrettanto “equanimi” sul piano delle responsabilità storiche, perché quelle, in entrambi i casi, vanno comunque ascritte alla follia nazi-fascista.

Uccidere o morire per il fascismo non sarà mai uguale ad uccidere o morire per la libertà, l’uguaglianza e la democrazia, perché uccidere o morire per il fascismo rappresenta la miseria della condizione umana ed uccidere o morire per la libertà, l’uguaglianza e la democrazia ne rappresenta la nobiltà. C’è da augurarsi che nel futuro non ci sia mai più qualcosa per cui uccidere o morire.