La scuola italiana è profondamente cambiata negli ultimi 15-20 anni. Ha subito una crisi profonda, soprattutto a causa dei continui tagli ai trasferimenti dello Stato. E a causa delle incertezze normative. Ma soprattutto per il continuo cambio dei ministri dell’Istruzione, ognuno dei quali ha voluto intestarsi una ‘riforma’ che portasse il suo nome, nel segno di un cambiamento che di fatto non c’è mai stato.

Ero in parlamento a contestare la ‘riforma Gelmini’ approvata durante il quarto governo Berlusconi (2008/2011) che provocò un disastro nelle scuole italiane. Ma poi le altre riforme non è che abbiano prodotto un granché. Perché in realtà sono state inutili e forse anche dannose, tanto da fare rimpiangere la scuola di un tempo.

Così la figura dell’insegnante ha perso forza e prestigio, con i docenti sempre più smarriti, lasciati da soli, sempre meno preparati ad affrontare le nuove generazioni di ragazzi, così diverse da tutte le precedenti generazioni. Studenti che erano sempre spalleggiati dai genitori contro gli insegnanti. Anche quando non avrebbero dovuto mai farlo.

La solitudine dei docenti è stata una caratteristica di questi anni. Malpagati, costretti ad emigrare da una regione all’altra, costretti dal ministero ad accontentarsi di un ruolo burocratico, freddo, sempre meno importante e centrale. Così la scuola assediata dalle famiglie continuamente insoddisfatte, che su di essa scaricavano tutte le tensioni e i fallimenti che vivevano al loro interno, colpita duramente dai tagli di bilancio veramente eccessivi, senza più un ruolo centrale nella vita sociale e culturale, ha finito per perdere forza e prestigio. E l’insegnante si è scoperto solo e smarrito.

Ma perché fare il docente oggi? Mi viene in mente uno scritto di Enrico Galiano, insegnante e scrittore, che è la cover di “E così vorresti fare lo scrittore”, di Charles Bukowski.

«Se lo fai per i soldi, non farlo. Anche perché saresti abbastanza fesso, vista la busta paga media. Se lo fai per avere un posto fisso e un lavoro sicuro, lascia perdere: dopo due giorni rimpiangeresti di non aver chiamato per quell’annuncio come animatore in quel villaggio turistico.

Se sei di quelli che “I giovani d’oggi sono tutti dei rammolliti” e “Non hanno voglia di far niente” e “Una volta qui era tutta campagna”, lascia che ti dica una cosa: non fa per te. Se quando vedi un ragazzino un po’ timido, un po’ in disparte, un po’ sfiduciato, non ti viene l’istinto di andare lì ad abbracciarlo, a dirgli “Dai, proviamoci insieme”, è meglio se ti trovi qualcos’altro.

Se lo fai per i due mesi di vacanza, trova un altro lavoro che te ne dia altrettanti, ma non questo: ad ogni giugno sentirai di aver bisogno di almeno il doppio del tempo per riprenderti. Se non ti nasce dentro come un ruggito, se non ti spuntano le branchie a stare in mezzo a quegli oceani di sguardi, paure, desideri orrore e voglia di spaccare il mondo che sono gli occhi di un adolescente, scusa ma non è roba per te.

Se non ci credi tu per primo, che qualcosa possa cambiare, se sei di quelli ormai rassegnati, se nemmeno leggi più il giornale perché ogni giorno ti sembra uguale, davvero, non lo fare. Se poi lo fai perché hai studiato e non hai trovato altro, assolutamente, davvero assolutamente, no. Questo non è un lavoro che fai quando non c’è altro. Lo fai quando non c’è altro che vorresti mai fare.

Scrivo di ragazzi perché ogni volta che ci parlo insieme, ogni volta che li osservo, mi viene da urlare al mondo quanta bellezza c’è lì dentro, quanta forza, quanto coraggio. Perché il mondo troppo spesso li dipinge per quello che non sono.