Partita da Cataforio, riabbraccia il suo paese dopo 15 anni vissuti nella Capitale, in occasione delle limitazioni per l'emergenza Covid-19. Da li la decisione di restare: «Non mi aspettavo di iniziare un percorso lavorativo qui soprattutto come danza terapeuta»
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Parte da Cataforio la storia di Agata Scopelliti, danza terapeuta, che dopo 15 anni a Roma ritorna in Calabria nel suo paese per continuare a fare quello che più l’appassiona.
I laboratori di danza al Cip di Roma
Il percorso lavorativo di Agata Scopelliti inizia a Roma, dove tiene laboratori di danza, presso il Cip Alessandrino, Centro d’Iniziativa Popolare della zona di Centocelle che dal 1990 promuove e sviluppa iniziative di carattere popolare. All’inizio i laboratori sono incentrati solo sul “Sonu a ballu”, la tipica danza dell’Aspromonte, la sua area geografica di appartenenza, finché tutto è andato man mano crescendo e all’interno del Cip Agata trova una seconda casa e una famiglia, creando dei legami sia con le persone che frequentano i corsi sia con i responsabili del posto. Da un semplice laboratorio nasce così la Scuola Popolare delle Arti. «Abbiamo costruito una scuola di cultura e di sapere orale, in cui si svolgevano anche lezioni di strumenti musicali, e da lì abbiamo iniziato a proporre tutte le altre danze del centro sud Italia: abbiamo scelto di coinvolgere persone che avevano la cultura della danza come una sorta di eredità ricevuta, poiché nati in contesi in cui si continuava a praticare. C’erano quindi rappresentanti delle danze di Calabria, Puglia, Sicilia, Abruzzo e Campania».
Nasce successivamente la necessità della presenza di una persona che proponesse tutte le danze e si mettesse in contatto con i conoscitori di tali tradizioni. Per molti anni è perciò Agata la figura di riferimento per il laboratorio stabile, che prevedeva all’epoca un appuntamento a settimana e 4 incontri di approfondimento delle singole danze che si studiavano. Continuando intanto a svolgere un appuntamento al mese incentrato sul “Sonu a ballu”, appuntamento che continua a mantenersi ancora oggi.
Il ritorno a Cataforio
A fine febbraio del 2020 decide di tornare a casa per qualche giorno, ma la pandemia la “costringe” all’inizio a rimanere a Cataforio, facendole fare un bilancio di quella che era la sua vita. Se Roma da una parte rappresentava il luogo in cui realizzarsi professionalmente, trovare senza troppe difficoltà date e serate per eventi, dall’altra segna la necessità di una qualità di vita migliore, meno caotica. E anche con a disposizione più tempo, non più da passare alla guida o sui mezzi sempre in ritardo per spostarsi da un luogo all’altro.
Per di più tutte le scuole chiudono, come chiude anche il laboratorio di danza terapia al Csm di Anagni, dove Agata lavorava. Finito il lockdown, e una volta che le attività cominciano finalmente a riprendersi, partendo da quelle all’aperto, inizia una nuova fase in cui trova lavoro a Reggio Calabria, che dista pochi chilometri da Cataforio. «Non mi aspettavo di iniziare un percorso lavorativo qui soprattutto come danza terapeuta, cosa che ho avvertito come una “spinta” che fino a quel momento, quando l’idea di fare ritorno in Calabria era ancora lontana anche per questi motivi, mancava. Il fatto di essere nata e cresciuta a Cataforio e avere vicino una città martoriata, ma nonostante tutto una città, mi ha aiutato a riprendere i miei rapporti locali. Nonostante per più di un anno abbia tenuto la casa che avevo in affitto a Roma con la speranza di poter tornare. Questo poiché non mi sentivo pronta ricominciare dal mio piccolo luogo di appartenenza, ma non essendoci più le condizioni per abitare a Roma, soprattutto quelle economiche, sono rimasta e non sono più ripartita».
A tutto questo si aggiunge un episodio particolare nella sua vita. Nel 2019 Agata conosce un ragazzo palestinese, che però deve ritornare in Palestina, è lei quindi ad andare a trovarlo, mentre lui riesce a ritornare solo dopo il lockdown tramite un visto per la Spagna ottenuto a fatica. Decidono di sposarsi, e anche lui riesce a trovare, nonostante all’inizio parli solo arabo e inglese, una sua dimensione e a ritagliarsi in autonomia un lavoro come cuoco, a Cataforio, dove entrambi cercano di incastrare le proprie passioni inserendole anche nell’ambito lavorativo.
Verso progetti e attività sul territorio
Da quel momento, e in seguito alla riapertura, Agata ha sistemato uno spazio di proprietà di famiglia adibendola a sala per lavorare, avviando da lì progetti e attività per bambini e bambine, tra le categorie che hanno sofferto di più la situazione di chiusura. «La danza terapia era per me una parte che dovevo ancora sviluppare qui perché non avevo contatti ed era per me anche una nuova disciplina, che aveva perciò bisogno di tempo per essere migliorata. Mi hanno aiutato una serie di combinazioni abbastanza fortuite: ho iniziato a lavorare con una persona affetta dal morbo di Parkinson con metodo di terapia integrata, allenando i movimenti che resistono e stimolando quelli che sembravano perduti. Il neurologo che seguiva il paziente ha molto apprezzato il mio lavoro e mi ha chiesto se avessi voglia di organizzare incontri di danza terapia anche per altri suoi pazienti, e tra qualche settimana dovrei avviare il progetto» dice Agata, che da sempre desiderava applicare la danza terapia in ambito clinico.
Inoltre, altre associazioni che la conoscevano da prima come insegnante di danze tradizionali, l’hanno coinvolta sia in laboratori nelle scuole che in altri progetti, come quello con l’associazione Spazio Teatro, partecipando a bandi per attività da destinare a zone a rischio della città. «Ho lavorato ad esempio con i ragazzi e le ragazze di Arghillà, quartiere della periferia nord di Reggio Calabria, nato negli anni ’80. Destinato ad ospitare abitazioni, scuole, asili nido, locali commerciali, senza che però questo sia mai veramente avvenuto. Mi sono ritrovata a tenere anche lì incontri di danza terapia con ragazzi e ragazze provenienti da un contesto difficile, ed è stato bellissimo. Erano inoltre presenti molti ragazzi della comunità Rom interamente trasferita ad Arghillà – continua Agata – che all’inizio mostravano molta diffidenza. Ma anche in questo caso la musica mi ha aiutata: un giorno ho elogiato davanti a loro alcuni musicisti di origini rom, tra i più bravi al mondo, e sui loro volti è apparso tutto l’orgoglio per le loro origini, e da lì hanno iniziato ad avere più fiducia e ad apprezzare il progetto».
Fare rete per la cura del bene comune
Sono tutte situazioni nuove che finalmente danno la consapevolezza che si trattasse del momento giusto e che ritrasferirsi è stata una scelta che sta portando una ventata di cose positive. Dalle relazioni, alla danza movimento-terapia, ai corsi di ballo tradizionali, che Agata aveva iniziato a svolgere nel 2018 con due appuntamenti mensili, che sono diventati oggi, vista la permanenza, settimanali.
«Finalmente mi sto riprendendo tante soddisfazioni che in tanti anni non ho avuto come mediatrice di danze. Dai semi che ho sparso nell’ultimo periodo è nato il progetto Lo Stretto che balla, progetto dedicato alle danze di tradizione orale del centro sud Italia, che raggruppa una serie di piccole realtà del territorio che sto cercando di mettere in rete, affinché insieme si possa essere più forti nelle normali difficoltà che spesso ci si trova a dover affrontare. Sono stata chiamata a Canolo, Melito di Porto Salvo e Bovalino. L’obiettivo è creare sinergie e crescere insieme ad altri contesti che si occupano di stesse tematiche, e affacciarsi realmente allo Stretto e a persone e paesi di fronte a noi, la Sicilia come il nord Africa. Luoghi verso i quali mi sento più proiettata rispetto al resto della Calabria, sia per vicinanza che per similitudini, come nel caso del dialetto. Spero che le relazioni tessute durante gli anni a Messina possano dare vita a circuiti, chissà magari per organizzare anche eventi itineranti che coinvolgano Sicilia e Calabria. Per me si tratta di un bisogno di esplorare, che vedremo cosa farà succedere».
Le collaborazioni di Agata si estendono anche a realtà che non si occupano esclusivamente di danza. È il caso di ContaminAzioni, festival da novembre a giugno 2023 che tocca le aree periferiche della città di Reggio Calabria tramite azioni condivise.
«È questo il mio obiettivo: fare rete, anche con chi si occupa di tematiche diverse. La danza, i concerti, i workshop, sono un pretesto, un “contenitore” per creare connessioni e prendersi insieme cura del bene comune, supportandosi anche dal punto di vista umano».