Il giovane artista della Pre Sila cosentina appassionato di Calabria e delle sue tradizioni: «Mettere nero su bianco è un atto profondo e intimo, in cui non ci sono maschere o inganni»
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Francesco Scarcella è un giovane della Pre Sila cosentina, ed è un talento di arte, cultura, ed ha una grande passione per la Calabria e per le sue tradizioni.
Ma proviamo a farcelo dire da lui stesso, chi è Francesco Scarcella.
«Questa è una bella domanda… bella e complessa. Ogni persona ha una sua percezione di sé e un’altra che ha la gente nei suoi confronti. Sono (tendo ad essere) una persona che vive intensamente ogni emozione, provando ad inchiodare le sensazioni che attraversano la mia vita. Scrivere per me è il modo più semplice per dare forma e voce a tutto ciò che sento, un atto liberatorio, una pratica che crea un ponte tra ciò che sento e l’esterno o tra ciò che l’esterno mi trasmette e come io lo capto. Un mezzo per esplorare e comunicare il mondo che abbiamo dentro… e che allo stesso tempo ci permette di vedere cose su un altro piano, in un’altra dimensione. Sono una persona sensibile e cerco di cogliere ogni sfumatura, vivendo sempre tra la gente, perché ho capito che la vita è un viaggio che non si fa da soli».
Autore e scrittore, anche poeta. Racconta un po’ questo tuo impegno, queste tue passioni.
«Sono sempre stato un bambino sensibile, che si emozionava o si accorgeva di cose, che neanche altri notavano. Ho iniziato a scrivere, quasi per caso, poesie durante le scuole medie, poi racconti, poi canzoni, poi romanzi. Ogni cosa che mi tocca – dolce o amara – se non passa in poco tempo, devo metterla sulla carta, trasformarla in parole, versi o racconti. Poi la vita è ricca di tanti spunti, di molteplici situazioni e anche grazie ai social, faccio venire fuori la parte di più dissacrante e ironica che ho. Però non sono uno scrittore, Umberto Eco lo era, io faccio più cose ma in ognuna delle quali non mi sento di eccellere, sono mezzi per esternare ciò che provo o ciò che “vedo”».
Ma anche attore, paroliere… c’è altro?
«Come detto ogni possibile, potenziale arte, che mi permette di esprimere ciò che vedo e ciò che sento la inseguo ed utilizzo. L’essere teatrale (anche nel raccontare di aver preso un caffè la bar) mi ha avvicinato fin da adolescente ai gruppi teatrali ed ho recitato per diversi anni in quello parrocchiale, allestendo almeno un spettacolo all’anno. Questa attività col tempo si è un po' arrestata (per gli impegni dei più e per ragioni lavorative), ma proprio l’estate scorsa sono tornato su un palco con la compagnia “Onirica Teatro” di Montalto (CS), portando in scena “Pericolosamente”.
Lo scrivere testi di canzoni è un’altra cosa che faccio da anni, da quando sentii che le poesie non bastavano a raccontare certe emozioni. Questa pratica ha trovato pieno compimento nel sodalizio con Domenico Scarcello dei VillZuk, a cui sono grato, per aver fatto collaborare (l’unico) alla composizione dei brani della sua band ed avermi fatto conoscere la realtà musicale di Cosenza e dintorni. Abbiamo scritto e scriviamo anche per gli amici de L’Hosteria di Giò e per altri interpreti e formazioni calabresi».
Hai scritto 9 romanzi, di cui uno durante la pandemia. Cosa significa per te scrivere?
«Inchiodare le emozioni. Scrivere è un atto profondo e intimo, in cui non ci sono maschere o inganni. Chi scrive lo fa perché sente di farlo, deve farlo. È un modo per manifestare sé stessi e il mondo che ci circonda, per dare voce a pensieri, emozioni e percezioni che altrimenti potrebbero restare inespresse. Scrivere è anche un atto di cura, un tentativo di comprendere, di dare ordine al caos delle emozioni e dei pensieri. È allo stesso tempo liberatorio, ma anche doloroso, perché implica l’affrontare ciò che è celato nel proprio cuore, di cose che neanche si sussurrano. Durante la pandemia il tempo si è fermato facendoci vivere una realtà irreale e i giorni del lockdown sono stati interamente vissuti scrivendo, mettendo in chiave metaforica le angosce e le speranze che avevo dentro».
Ti sei definito “inchiodatore di emozioni”!
«Credo che questa sia la definizione più idonea per descrivermi, perché, non sono uno scrittore nel vero senso della parola (per me uno scrittore deve essere capace di scrivere qualsiasi e di qualsiasi cosa), io mi limito a bloccare sulla carta, ad inchiodare delle emozioni, dei turbamenti, delle realtà che si stanno manifestando in altre dimensioni e che mi sembra di intravedere, di percepire nell’aria, in una musica, attraverso un gesto che può sembrare banale, ma che a me spalanca un mondo».
Qualche giorno fa su corso Mazzini a Cosenza, hai notato un gruppo di ragazzini, tra gli 8 e i 10 anni, stava giocando a calcio. Tra di loro c'era un ragazzino di colore molto bravo… Poi cosa è successo?
«Era oggettivamente più bravo e gli altri bambini non riuscivano a togliere il pallone dai piedi. Improvvisamente un altro ragazzino, basso e tarchiato, gli ha urlato più volte: "Tornatene al tuo paese!". Quella frase, così brutale e volgare, mi ha colpito come un pugno. Una frase terribile in sé, ma ancora più spaventosa in bocca ad un bambino. La colpa è ovviamente degli adulti. Sono gli adulti (o presunti tali), consapevoli o meno, che influenzano i bambini, che passano messaggi, che poi i piccoli imparano a ripetere. I bambini non dovrebbero avere questi pensieri. I bambini dovrebbero solo pensare a giocare, a sorridere, a condividere momenti di felicità senza l'inutilità di certe parole. I bambini non devono pensare a queste cose: i bambini devono solo pensare a giocare!»
"Tornatene al tuo paese!” Una frase che racconta molto di come siamo.
«Una frase che è scagliata come cura e soluzione, senza comprendere realmente tutto quello che c’è a monte e gli effetti che può provocare. Non voglio assolutamente entrare in merito alla questione immigrazione, alle tensioni sociali, allo sfruttamento o situazioni di effettiva pericolosità (per svariate ragioni, nazionali e internazionali) che vivono certe realtà… a me ha turbato profondamente che un bambino abbia detto una frase del genere. Gli adulti non sanno affrontare certi problemi e allora come può un bambino avere una soluzione brutale e preconfezionata del genere? Come potrà crescere credendo nei sogni e nella bellezza, se gli vengono passate queste dosi di odio. I bambini dovrebbero solo pensare a giocare».
In tuo post dí Facebook di recente hai detto: “Sto scrivendo un nuovo romanzo (sì, credo che alla fine sarà un romanzo). Ma siccome io sono sempre in giro (perché ho sempre qualcosa da fare )... allora credo che il romanzo si sta scrivendo da solo”. Allora?
«Credo che tutto ciò che ho scritto (da sempre, siano esse poesie, canzoni, racconti o romanzi) si sia scritto per una necessità spirituale, sia il risultato di emozioni, parole, ricordi, incontri che la mia anima setaccia e trasforma in una storia. O sia la capacità di chi compone (sia essa scrittura o musica o pittura, ecc…) di aprire una finestra e di guardare in una dimensione in cui tutto sta già accadendo. In entrambi i casi “l’autore” è solo un tramite, un mezzo per far venire alla luce storie, emozioni o fantasie, che resterebbero celate: è questo uno dei più grandi meriti che ha chi crea arte. Venendo al prossimo romanzo, si potrebbe dire sinteticamente che è un romanzo d’amore, ma in realtà è un romanzo che parla della vita, di più vite, di cose le muove. Un romanzo caleidoscopico che alla fine, credo che lascerà più domande che risposte».
Ti presenti quasi sempre con allegria e simpatia, sai strappare sempre un sorriso, anche nei momenti difficili. “Sono uno di quelli che pensa, che anche in mezzo alla pioggia c'è sempre un arcobaleno”, hai scritto. Ma quanta pioggia è caduta su di te? Quanti momenti difficili?
«Tanti come tutti. Alcuni li esternano, altri li tengono celati e in quel modo credo facciano più male. Io per tutte le esperienze che ho vissuto ho capito davvero che la vita è un viaggio e che non si fa da soli. E allo stesso tempo bisogna mettere amore in ciò che si fa, altrimenti ogni cosa diventa gravosa, dovuta… e non è una vita piacevole. Fortunatamente di mio sono ironico ed autoironico, dissacrante, mi piace guardare sempre al lato leggero, senza prenderci troppo sul serio. Ironizzando (ma non troppo) dico che durante il giorno tra la gente, in ogni ambito che sia culturale, famigliare, lavorativo mi piace scherzare, strappare un sorriso… poi la sera quando torno a casa, mi chiudo nella mia stanza e da solo piango, affronto i miei demoni privati, le infinite elucubrazioni o visioni di ciò che durante tutto il giorno non dico, non voglio dire.
L’essere ironici, teatrali è un elemento che abbiamo in diversi nella mia famiglia e ci piace narrare storie, tenere il centro della scena dando vita con le parole ai ricordi e a racconti… suscitando alla fine la risata generale, dando agli altri anche solo un effimero momento di allegria».
Ma poi in mezzo alla pioggia c'è davvero sempre un arcobaleno?
«Voglio credere di sì! Io sono cattolico e credente e sono convinto che l’imperscrutabile disegno di Dio tenda al meglio. L’anno scorso la mia famiglia ha subito una grave perdita: è venuto a mancare un mio zio che era la colonna portante di tutti noi e di un’intera comunità. A distanza di mesi, ancora oggi il paese è incredulo… e noi non riusciamo a darci pienamente una spiegazione. Lui era un tipo ironico, un’enciclopedia vivente, una fonte inesauribile di racconti e ricordi di un altro tempo. Non c’era stata famiglia di Casole che non l’avesse conosciuto e che non l’avesse cercato per qualche motivo. Aveva sempre la battuta pronta ed era disponibile con chiunque. Voleva vivere (e ha vissuto) sempre a 200 km all’ora e non amava il pianto, la tristezza, i tempi morti… amava la vita. Io ho capito che nella vita conta più un sorriso che mille lacrime. Andiamo avanti così. So che lui vorrebbe così».