Calcio, teatro e musica sono i protagonisti dell’attesissimo evento del prossimo fine settimana del Festival d’autunno con Federico Buffa, volto noto di Sky, telecronista sportivo e narratore d’eccellenza. Buffa sarà al Teatro Politeama a Catanzaro sabato 26 ottobre con “La milonga del fútbol”, un racconto con musica dal vivo arricchito da tanti contributi video, su alcuni straordinari calciatori argentini che hanno lasciato un segno nella storia dello sport, Renato Cesarini, Omar Sivori e Diego Armando Maradona.

Partiamo dal titolo “La milonga del fútbol”.

«Può essere fuorviante il fatto che la milonga sia un genere musicale. In realtà qui è usato come luogo dove si balla il tango, ci sono tre persone  in scena: la cantante Mascia Foschi che è di Cesena ma se la ascolti sembra un’argentina, il pianista Alessandro Nidi e il narratore, che condividono storie sul ‘900 argentino. Il fútbol è un vettore strepitoso perché ci consente di raccontare le storie di tre argentini, italiani di fatto. Cesarini è addirittura nato in Italia, Sivori è nato in Argentina ma figlio di emigranti italiani, Maradona è per lato materno italiano, per lato paterno indio-guaranì, tutti e tre però hanno giocato in Italia e in Argentina, e io faccio questo continuo viaggio andata e ritorno, tra Italia e Argentina, ma anche tra Europa e Argentina».

Come mai ha scelto proprio questi tre nomi?

«I tre rappresentano tre Italie diverse. Cesarini è un figlio dell’emigrazione dei primi del Novecento, nasce a Senigallia ma di fatto cresce a Buenos Aires e quindi rappresenta gli italiani che lì arrivano e questo mi consente di poter parlare dell’emigrazione italiana in Argentina, com’era, come si comportavano, come entravano in questo nuovo mondo ben diverso dagli Stati Uniti. Sivori è figlio di italiani, nasce negli anni ‘30 in un’altra Argentina, quella della pampa, è quindi un argentino diverso da Cesarini. Diego Armando Maradona nasce invece nella baraccopoli di Buenos Aires dove non ha energia elettrica, non ci sono latrine, non c’è acqua potabile: è figlio di quella Argentina diseredata e l’idea che un genio possa nascere lì, mi entusiasma sempre».

Stiamo parlando, ad ogni modo, di tre grandi campioni del passato. Ci sono oggi personalità di quel livello, così forti, non solo dal punto di vista calcistico?

«No, neanche vagamente. È perché è diverso il valore sociale del calcio, che era un tempo molto forte. Oggi ormai i club italiani per le partite di cartello, come Inter-Juve, mettono il terzo anello a 90 euro, questo vuol dire che evidentemente l’impatto sociale che aveva il calcio un tempo non lo ha più, e anche la vocazione, direi, dei giovani italiani al calcio è un po’ diversa. Marco Tardelli mi raccontò che sua mamma gli bruciò la maglia delle giovanili del Pisa, quando aveva tredici anni, perché voleva che studiasse e prendesse il diploma: oggi se tu hai un Marco Tardelli in casa, gli dici che lo studio è l’ultimo problema che ha, di andare fare il calciatore e poi si vedrà. Non sono passati cent’anni, ne sono passati solo quaranta: il mondo è cambiato tantissimo e il valore sociale è diverso».

Però c’è ancora bisogno di raccontarle, queste storie, e lei hai trovato uno stile, una formula in qualche modo, che fa più presa sul pubblico, sugli spettatori.

«Non saprei. Non ho tutta questa contezza: penso che chiunque sia chiamato a fare una cosa del genere abbia un suo stile che un po’ lo rappresenta, per come lo ha vissuto lui, quanti anni ha, che cosa ha visto. Non mi viene in mente nulla di più lusinghiero per un essere umano, a parte la salute, dell’essere retribuito per raccontare la propria passione. Quello che si ascolta è ciò che io provo per questo fenomeno: parlare di un mondo, quello argentino dove, a ragione, dichiarano che il gioco lo hanno inventato gli inglesi, ma loro hanno fatto una cosa più importante, hanno inventato l’amore per il calcio, che secondo me è proprio sacrosanto, ci dà un piacere particolare proprio nel condividerlo con un pubblico che sa che si parlerà di queste cose. Non devo fare Shakespeare, non devo fare il teatro degli inizi del ‘900, né Pirandello. Devo raccontare storie che posso condividere col pubblico».

Che componente ha la musica, sul palcoscenico, in questo racconto?

«Diciamo che è la sezione ritmica dello spettacolo, e io mi appoggio sulla musica. In molti casi traduco i tanghi, perché sono spesso in lunfardo che è una lingua grammelot creata a Buenos Aires agli inizi del ‘900, che attinge da tutti i dialetti: un calabrese e un piemontese, ad esempio, tra di loro non sono in grado di comprendersi e quindi ci vuole una lingua per tutti. E allora prendi un po’ di qua e un po’ di là e viene fuori questo meraviglioso grammelot di parole che non esistono, ma che vanno bene proprio lì, in questo posto fuori dal comune. E il creare un Paese su queste basi, dove il calcio e il tango crescono assieme, e che lo contraddistinguono in giro per il mondo, rendono l’Argentina un luogo passionale come credo nessun altro al mondo».

Non è la sua prima volta a Catanzaro. Che rapporto ha con questa città?

«Ci sono già stato almeno cinque, sei volte, che è tanto per un lombardo: sono lusingato se facciamo 1400 spettatori a Roma, se facciamo due tutto esaurito al Manzoni a Milano, se facciamo 900 spettatori a Torino, ma tengo di più a Catanzaro, a portare lì una storia da condividere. Perché il mio super partner di telecronache Fulvio Tranquillo non solo è originario della Calabria, di Pizzo Calabro, ma la sua famiglia sta a Catanzaro. Tanto tempo fa mi portò a vedere questo stadio in salita, che credo sia il posto più scomodo in quanto a parcheggio, ma non importa, l’importante è lo stadio. Tra l’altro anche una stretta collaboratrice del mio direttore Federico Ferri, Caterina Santopolo, è di Catanzaro: suo padre lavora all’interno del teatro Politeama. Come vede, bastano due telefonate e non si sa cosa si mette insieme nel mio mondo…».